L’opera “Der Aetna” (1880), coronamento di un lavoro iniziato nel 1834, redatta in base ai manoscritti di Wolfgang Sartorius von Waltershausen, profondamente rivisti ed integrati da Arnold von Lasaulx rappresenta una fonte di dati originali, basati su osservazioni dirette e su notizie ricavate da scritti oggi difficilmente reperibili e da comunicazioni orali.
Di quest’opera è pubblicata la traduzione italiana del I Volume (Der Aetna, resoconto dei viaggi e cronaca delle eruzioni, 2013), che contiene anche le tavole fuori testo del II Volume e diverse incisioni riprodotte dall’allegato ai due volumi.
L’Autore ricevette una solida formazione matematica e fisica all’Università di Göttingen tramite il contatto scientifico con Gauss e Weber, professori in quella sede, mentre l’interesse alle indagini geologiche, che lo condusse allo studio dell’Etna, fu probabilmente sollecitato dal geologo berlinese Friedrich Hoffmann, che già vi aveva lavorato. Nel primo viaggio verso la Sicilia iniziato nel 1834, Sartorius effettuò numerose soste connesse anche allo scopo di eseguire osservazioni sul magnetismo, particolarmente a Milano, Firenze, nell’isola d’Elba, a Roma, Napoli e in Calabria, nonché in Sicilia. A Catania giunse nel 1835 per iniziare il suo lavoro sull’Etna, che sospese per alcuni mesi, perché colpito dalla meningite, e riprese fino ai primi mesi del 1837, quando dovette ritornare in patria per sfuggire ad un’epidemia di colera.
Dall’autunno 1838 al 1843 Sartorius fu nuovamente in Sicilia, accompagnato dall’astronomo Peters e dall’architetto Roos, cui nel 1841 si aggiunse sul posto Saverio Cavallari, con i quali portò a compimento il rilievo topografico. In questo periodo oltre che al rilievo topografico ed alle campagne geologiche, completate nel 1842, si dedicò ad alcune opere, come lo gnomone dodecaedrico nel giardino Bellini e la meridiana nella chiesa del Monastero di San Nicolò l’Arena a Catania e ad Acireale la meridiana della Cattedrale.
Negli anni successivi rivolse la sua attenzione anche allo studio del vulcanismo dell’Islanda, che lo portò a dedurre significativi collegamenti con quello Etneo, e proseguì lo studio e l’elaborazione dei dati e delle misure effettuate all’Etna, che portarono alla pubblicazione della carta topografica e dei fascicoli dell’Atlante. Fece poi ritorno in Sicilia negli anni 1861, 1864 e 1869 per aggiornare e completare la raccolta dei dati e il rilevamento interrotti dal 1843.
A prescindere da numerosi saggi brevi di vario contenuto, tra i lavori più importanti, accanto all’Atlas des Aetnas (Atlante dell’Etna) con le note esplicative, pubblicati in vita da Sartorius sono da ricordare:
Ueber die submarinen vulkanischen Ausbrűche in der Terziar-Formation des Val di Noto, im vergleich mit verwandten Erscheinungen am Aetna (Sulle eruzioni vulcaniche sottomarine nella formazione del Val di Noto nell’era terziaria, raffrontate a fenomeni analoghi sull’Etna), Göttinger Studien, 1845, I.
Physisch-geographysche Stizze vom Island mit besondererRűcksicht aud vulkanische Erscheinungen (Schizzo fisico-geografico dell’Islanda, con particolare riguardo a fenomeni vulcanici), Göttinger Studien, 1847, I.
Geologischer Atlas von Island, 25 Blatter Ansichten und geologsiche Details (Atlante geologico dell’Islanda, 25 tavole di vedute e particolari geologici),disegnati sul posto da Sartorius v. Waltershausen e incisi da Julius Hey, Göttingen, 1853.
Ueber die vulkanische Gesteine in Sicilien und Island, und ihre submarine Umbildung (Sulle rocce vulcaniche in Sicilia e Islanda, e la loro trasformazione sottomarina), Göttingen, 1853.
Untersuchungen űber die Klimate der Gegenwart und der Vorwelt, mit besonderer Berűcksischichtigung in der Diluvialzeit (Ricerche sul clima dell’era attuale e di quella preistorica, con particolare riguardo ai fenomeni glaciali nell’era diluviale). Con disegni e due tavole, Harlem, 1865.
L’attenta osservazione dei prodotti vulcanici e l’integrazione delle conoscenze ed interpretazione dei fenomeni elaborate in Sicilia ed Islanda hanno portato a riconoscere l’origine sottomarina di manifestazioni effusive, riconosciute come tra le più antiche dell’Etna (Acicastello e Acitrezza), come di gran parte di quelle che affiorano nella fascia settentrionale dell’Altopiano Ibleo e di quelle da lui osservate in Islanda. In questi prodotti ha definito la presenza di “palagonite”, da Palagonia, come prodotto di trasformazione di vetro basaltico, come costituente principale di “tufi palagonitici”, termini ampiamente usati nella letteratura vulcanologica internazionale
L’opera rappresenta una “summa” delle conoscenze sulla regione etnea e sulle aree contermini, e costituisce senza dubbio un momento fondamentale nello sviluppo della vulcanologia moderna, non più intesa come descrizione di fenomeni eruttivi, le cui cause erano eventualmente ricondotte dagli autori dei secoli precedenti ad interpretazioni più o meno fantasiose, ma piuttosto volta al riconoscimento dei processi endogeni che ne condizionano lo sviluppo, interpretati in base alle più avanzate conoscenze scientifiche dell’epoca.
Si deve riconoscere che l’enorme contributo di informazioni e l’importanza di questo lavoro, comunque frequentemente citato, sono stati fortemente sottovalutati e largamente ignorati dagli autori successivi, anche negli ultimi decenni, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso quando si è fortemente intensificate le indagini sulla struttura del vulcano, l’evoluzione del suo edificio nel tempo e le caratteristiche dei suoi prodotti in relazione alle modalità di alimentazione dell’attività eruttiva, ed i contenuti dell’opera potevano essere ritenuti superati. Questa scarsa attenzione può essere attribuita, ma non giustificata, alla ponderosità ed alla vastità dell’opera, che si sviluppa in due volumi per oltre 900 pagine ed alla difficoltà di affrontare la lettura estesa di un testo, in una lingua spesso poco conosciuta. Si aggiunga che in alcune parti il testo appare molto pesante e convoluto, con ripetizioni e rinvii a situazioni difficilmente identificabili se il lettore non ha una dettagliata conoscenza dei luoghi, e che vengono usate unità di misura appartenenti a sistemi diversi talora associate nelle stesse pagine.
Quando la morte colse Sartorius il 16 ottobre 1876, la stesura della dettagliata monografia dell’Etna, che doveva illustrare ed integrare un Atlante pubblicato tra il 1843 ed il 1861, rimase allo stato embrionale. Essa era stata progettata per riportare i risultati delle ricerche condotte per tanti anni con la descrizione e la storia del vulcano. La vedova nel 1877 diede ad Arnold v. Lasaulx, che pure non era stato allievo o collaboratore di Sartorius, l’incarico di portare a compimento il lavoro progettato, che egli assunse con grande entusiasmo, recandosi anche sui luoghi, e riprendendo, riorganizzando e integrando nel corso di tre anni il materiale raccolto nei decenni precedenti da Sartorius. Va evidenziato che l’apporto di v. Lasaulx al completamento dell’opera, particolarmente del II volume, è stato fondamentale ed almeno in parte originale.
Nel primo volume, di cui è pubblicata la traduzione in italiano, una prima parte molto estesa è nella stesura originale di Sartorius ed è principalmente dedicata alla cronaca dei diversi viaggi compiuti da Sartorius dal 1834 al 1869, con annotazioni di grande interesse storico e socio-antropologico. Qui viene dato un quadro assai vivace della visione che un nobile tedesco come Sartorius, di educazione protestante e con ampi e profondi interessi culturali ed atteggiamenti positivisti, poteva avere sugli avvenimenti e sulle condizioni socio-politiche delle regioni attraversate e visitate in diverse occasioni lungo un arco temporale di circa trentacinque anni, nel quale si stavano verificando grandi rivolgimenti politici ed un rapido sviluppo dei sistemi di trasporto e delle reti stradali. La seconda parte del volume presenta il dettagliato e documentato resoconto delle eruzioni etnee, stato rivisto da v. Lasaulx, che lo ha aggiornato fino al 1879, anche con l’aiuto di Orazio Silvestri, e contiene una lista di riferimenti bibliografici ed un’appendice contenente alcuni testi molto rari e manoscritti inediti sulle eruzioni del 1669, 1763, 1766 e 1811. Sempre a cura di v. Lasaulx alla fine del primo volume è stata inserita una carta topografica dell’Etna ridotta a piccola scala (1 : 200.000), aggiornata e ricavata dalle 13 tavole a scala 1 : 50.000 già pubblicate da Sartorius nell’Atlante (1843-1861).
V. Lasaulx, ha completamente rielaborato il testo del II volume, eliminando una minuziosa rassegna delle misurazioni geodetiche, ed ha redatto una dettagliata descrizione degli aspetti topografici e geologici delle regioni studiate, talora con un dettaglio che sfiora la pedanteria, con continue citazioni di toponimi locali frequentemente oggi modificati o dimenticati. Gli ultimi due capitoli del II volume (“Storia dell’evoluzione dell’Etna” e “I prodotti dell’Etna”) sono stati elaborati nella forma ed integrati nei contenuti da v. Lasaulx, dopo la morte di Sartorius, sulla base di scarsi appunti preliminari.
In questi capitoli, di grande rilevanza appare l’identificazione di diversi assi eruttivi, basata sull’esame della giacitura dei livelli di lave e tufi associato a quello della distribuzione delle orientazioni azimutali dei dicchi, e la conseguente ricostruzione della localizzazione e della successione relativa di diversi edifici, con caratteristiche ampiamente descritte, distinti nel testo e rappresentati nelle figure (Fig. 2). Tali contributi alla conoscenza del vulcano sono stati sostanzialmente ignorati e solo dal 1960 nuove indagini hanno portato a riconoscere l’esistenza di più assi e centri eruttivi, oltre a quelli individuati da C. Gemmellaro (1858): il Trifoglietto (asse feldispatico) più antico, ed il Mongibello (asse pirossenico).
E’ comunque da porre in evidenza che sia l’approccio alla ricerca, sia i risultati conseguiti abbiano segnato un avanzamento di assoluta rilevanza e si distinguano in modo significativo da quanto appare in opere anche dello stesso tempo di autori illustri, come Carlo Gemmellaro, che pure ha dedicato gran parte delle sua vita alle indagini sull’Etna.
Basti ricordare impegno di Sartorius e di vari collaboratori al rilievo originale della carta topografica dell’Etna alla scala 1 : 50.000, sostanzialmente completato nel 1841, ed alla sua stampa nei fascicoli dell’Atlante (1843-1861), integrata successivamente dal rilievo di una più dettagliata carta della Valle del Bove, rivista e stampata a cura di v. Lasaulx (scala 1 : 15.000; 1879), primi documenti in assoluto di questo tipo, in assenza di una preesistente base di dati geodetico-topografici. Questo lavoro ritenuto da Sartorius come base irrinunciabile del rilevamento geologico, così da poter riportare quanto riscontrato in campagna su una base cartografica attendibile e sufficientemente dettagliata. La rete di misure per tale rilievo è stata assunta nel 1864 come base di partenza, per l’area etnea, dall’ Ufficio tecnico dello Stato Maggiore del regio Esercito, nel quadro della produzione della nuova carta topografica dell’Italia.
Di assoluta rilevanza ed originalità è stato anche l’impegno dedicato al rilevamento geologico effettuato con un dettaglio sconosciuto ai ricercatori contemporanei. Il lavoro è stato svolto da Sartorius, munito di pochi strumenti, un martello per campionare le rocce e un album da disegno, in occasione dei diversi soggiorni in Sicilia (negli anni 1835-37, 1838-1842, 1861, 1864 e 1869), durante molte campagne della durata ininterrotta di settimane fino a mesi anche nei mesi invernale sui diversi versanti del vulcano, con il sostegno di una guida locale, Matteo Caravagna, lontano da qualsiasi consorzio civile, alloggiando in condizioni disagiate, in alloggi miserevoli o ricoveri di fortuna e presso le mandare (o mànnare: ovili) dei pastori che le occupavano solo nella stagione estiva. Questo lavoro ha portato come risultato di straordinaria importanza alla pubblicazione del già citato Atlante dell’Etna in otto fascicoli (1843 – 1861) con la carta geologica in tredici fogli e carte topografiche alla scala 1 : 50.000, tavole e note esplicative. A cura di v. Lasaulx, i fogli geologici di questo Atlante, unitamente a profili geologici ed alle le tavole più significative, sono stati riportati in allegato ai due volumi.
Assolutamente unico, per l’epoca della pubblicazione, deve essere considerato inoltre il corredo di immagini nel testo (76 silografie) e delle tavole fuori testo (37 calcografie) ad integrazione ed illustrazione delle descrizioni dei luoghi e dei fenomeni trattati, che rappresentano con una grande dettaglio ed attenzione quanto osservato dall’occhio del geologo,.
Riguardo alle definizioni e alle interpretazioni dei fenomeni e delle situazioni osservate, si deve considerare che esse erano quelle adottate al tempo della redazione dell’opera, riferite allo stato delle conoscenze di base (fisica, chimica, termodinamica) e delle attrezzature, tecniche e metodologie di indagine presenti al tempo della redazione che, pur sviluppandosi con grande rapidità nel XIX secolo, erano assai meno avanzate rispetto a quelle odierne. Pertanto, i termini usati nel testo per la definizione delle lave, frequentemente obsoleti e spesso oggi non più usati o usati con significato diverso, si riferiscono quindi ai criteri sistematici allora in uso ed oggi ampiamente superati.
Si deve ricordare che fino ai primi decenni del XIX secolo l’esame delle rocce ai fini della loro classificazione era effettuato solo mediante osservazioni ad occhio nudo, o eventualmente con l’uso della lente di ingrandimento, su corpi rocciosi in campagna o su campioni prelevati, dato che solo a partire dal 1820 avevano avuto inizio le prime osservazioni di rocce al microscopio ed è stato quindi possibile nei laboratori più avanzati il loro studio microscopico, con la messa a punto di tecniche di preparazione dei campioni (sezioni sottili) e di strumenti (microscopi polarizzanti) che consentivano un esame dettagliato delle strutture delle rocce e dei loro componenti minerali. L’applicazione di metodologie basate su queste osservazioni era possibile a Gottinga nella sede di lavoro di Sartorius ed in altre Università tedesche, dove erano già in uso sufficientemente affinati strumenti e metodologie di analisi chimica quantitativa di minerali rocce, che hanno portato da allora fino ad oggi a rivoluzionare i criteri tassonomici di questi prodotti.
Di questo tipo di approccio non esiste traccia nelle numerose pubblicazioni, anche di notevole impegno, degli studiosi locali coevi (si vedano p.e. particolarmente quelle di Giuseppe Alessi e Carlo Gemmellaro), che evidentemente non avevano a disposizione i laboratori e gli strumenti presenti in Germania, e continuavano quindi ad applicare i tradizionali metodi e criteri di studio ereditati dal secolo precedente.
Dell’evoluzione delle metodologie di ricerca applicate si ha una notevole evidenza nel testo, in cui nelle parti più chiaramente riferite ad osservazioni dirette sul campo, effettuate essenzialmente nel corso dei primi due viaggi (1835 – 1843), la trattazione si basa essenzialmente su quanto si ricavava dall’esame ad occhio nudo dei corpi rocciosi e dei campioni prelevati da questi. Solo nella III parte del secondo volume, redatta a partire dal 1877 da v. Lasaulx, sulle rocce e minerali dell’Etna in base ad appunti e dati di laboratorio ottenuti da Sartorius ed in parte già pubblicati (1853), poi ampiamente integrati e rivisti, sono dettagliatamente descritti la composizione mineralogica ed i caratteri delle strutture microscopiche di prodotti etnei osservati al microscopio e sono riportati i risultati di analisi chimiche di lave, ceneri e tufi, oggi di esclusivo valore storico. Il complesso di questi dati consente una prima distinzione, basata su dati quantitativi, dei diversi tipi prodotti esaminati.
Si può mettere in rilievo che già nella seconda metà dell’Ottocento erano individuabili i 10 elementi chimici “maggiori” costituenti le lave dell’Etna (ossigeno, silicio, alluminio, ferro, calcio, magnesio, sodio, potassio, titanio ed in minor misura fosforo) ed alcuni “minori”, per un totale di 32.
Seppure in assenza di precisi criteri tassonomici su base mineralogico-petrografica o chimica, sviluppati in tempi successivi e tuttora in evoluzione, nella descrizione delle lave vengono distinti diverse varietà, in base alla distribuzione dei minerali presenti e delle strutture, che portano a distinguere “basalti”e “doleriti” dei livelli, definiti pre-etnei o delle più antiche colate etnee, dalle “cosiddette trachiti e fonoliti”, con cristalli di orneblenda e mica di piccole dimensioni, e dalle “cosiddette pietre verdi” riscontrate nella Valle del Bove, contenenti grossi cristalli di orneblenda. Le lave più recenti sono distinte in diversi tipi in relazione all’abbondanza relativa delle fasi minerali presenti, riconosciute al microscopio in sezione sottile. Delle singole lave studiate, di cui viene indicata la provenienza, viene data un’accurata descrizione microscopica, con riferimenti ai minerali presenti, alle strutture ed allo stato di alterazione; di molte viene presentata anche l’analisi chimica (spesso riferita come eseguita a cura di Sartorius) ed il peso specifico; per alcune viene anche data la distribuzione volumetrica percentuale (analisi modale) dei minerali che le costituiscono. Al di là della precisione dei dati presentati, non si può non evidenziare l’ampio spettro di indagini condotte alle diverse scale, da quella sull’intera regione etnea fino al singolo campione esaminato per ricavare dati sulla sua struttura e composizione mineralogica e chimica.
Con riferimento allo studio dei minerali, oltre alla loro descrizione vengono presentati numerosi risultati di saggi qualitativi e di analisi quantitative sui loro principali componenti chimici, oltre che informazioni sulle loro proprietà fisiche (durezza, sfaldabilità, densità, colore), applicando quanto si sapeva per una più precisa classificazione, in base a ricerche sviluppate a partire dalla fine del XVIII secolo, con una trattazione al passo con le conoscenze di cristallografia geometrica più avanzate del tempo.
In particolare vengono interpretate modalità e ambienti di formazione dei minerali riconosciuti, con un approccio ancor oggi sostanzialmente valido, suddivisi in cinque gruppi:
1- Minerali di cristallizzazione diretta dal fuso (Plagioclasio; Augite; Olivina; Magnetite; Apatite; Orneblenda; Mica);
2- Minerali di sublimazione (Zolfo; Ematite; Szaboite; Breislakite; Cloruro di ammonio; Atacamite; Tenorite);
3- Minerali deposti da sorgenti termali o fredde o dovuti a trasformazione dal primo gruppo (Pirite; Calcopirite; Pirrotina; Granato; Vesuviana; Anortite (Ciclopite); Diopside; Tremolite, Asbesto; Analcime; Mesolite, Natrolite, Thomsonite; Phillipsite; Herschelite; Cabazite; Silice idrata, Calcedonio, Opale; Calcite, Dolomite, Siderite; Aragonite; Malachite; Gesso; Vivianite);
4- Minerali deposti da fumarole (Allume; Solfato di Ferro; Cloruro di sodio, Cloruro di potassio, Cloruro di ferro; Solfato di sodio e potassio; Mascagnite; Sale inglese; Cianocromo; Gesso; Realgar; Carbonato di sodio; Nitruro di ferro). Oltre a questi viene data notizia della presenza occasionale di sostanze bituminose ed idrocarburi.
Infine, vengono diffusamente trattati anche i prodotti emessi come gas e vapori e le acque di sorgenti a varia termalità, oltre che dalle “salinelle”, riportando numerosi dati analitici pubblicati, ripresi da lavori di altri autori, tra i quali appare frequentemente il già citato Orazio Silvestri, chimico e vulcanologo, cui v. Lasaulx nella Prefazione attribuisce un contributo di fondamentale importanza per il completamento dell’opera.
Per quanto attiene i rapporti di familiarità o di semplice conoscenza intrattenuti durante i soggiorni in Sicilia, Sartorius nell’introduzione del I volume esprime un vivo ringraziamento “al duca di Carcaci, al priore La Via, al padre Maggiore, al priore Francesco Tornabene, attualmente direttore dell’Orto Botanico, al signor Mario Gemmellaro, morto subito dopo l’inizio dei nostri lavori, nonché ai suoi fratelli, il professor Carlo Gemmellaro e il signor Giuseppe Gemmellaro di Nicolosi, al dottor Aradas, professore di Zoologia,…”, alcuni dei quali illustri soci “ordinari attivi” dell’Accademia Gioenia, con cui peraltro non appare abbia intrattenuto rapporti scientifici di rilievo. In particolare nel testo in cui espone in dettaglio lo svolgersi delle sue ricerche non mostra di essersi mai incontrato o consultato con il collega geologo catanese Carlo Gemmellaro, né di aver discusso o confrontato con lui i risultati delle sue indagini o averli considerati, salvo che per quanto ripreso dai lavori relativi alle eruzioni dal 1832 al 1865, nei resoconti nel I volume. Al contrario esprime grande stima e sentimenti di amicizia verso gli altri fratelli Giuseppe e particolarmente Mario Gemmellaro, che viveva a Nicolosi “sotto un agreste tetto di canne, a metà contadino e a metà uomo dotto. In gioventù aveva ricevuto un’istruzione classica, aveva disposizione per gli studi storici e considerava l’Etna come suo proprietà scientifica”. Sartorius riconosce il contributo indiretto e diretto di Mario Gemmellaro alle sue ricerche, dato che aveva potuto fruire in molte occasioni del rifugio, denominato la Casa Inglese (Fig. 5), da questi costruito nel 1811, con l’appoggio dell’esercito inglese allora di stanza in Sicilia, di cui dice: “…per quanto povero, assicurava a quell’altitudine protezione contro le tempeste. Senza di essa un’indagine precisa della vetta dell’Etna andrebbe incontro a grandi e forse insuperabili difficoltà”.
Di Mario Gemmellaro dice: “Nonostante non avesse ricevuto un’istruzione nelle scienze naturali, aveva tuttavia un occhio sensibile ai fenomeni della natura ed ebbe la fortuna, durante la sua lunga vita, di potere osservare assai da vicino molte e interessantissime eruzioni. Aveva inoltre raccolto notizie storiche su precedenti eruzioni del vulcano, che egli ebbe la bontà di comunicarmi e che senza il suo attivo impegno sarebbero sicuramente andate perdute. Purtroppo quest’uomo eccellente è morto nella primavera del 1839, senza vedere la conclusione delle nostre ricerche”.
A riprova del fatto che i due scienziati non avessero avuto contatti significativi tra loro, dei prolungati soggiorni in Sicilia di Sartorius e dell’enorme quantità di lavoro da lui svolta, Carlo Gemmellaro, nell’introduzione del suo lavoro La vulcanologia dell’Etna (1858) scrive solamente: “Il barone Sertorius (sic) di Waltershausen passò più anni a lavorare sulla carta topografica dell’Etna, assistito da molti valenti fisici; ma di quest’opera…non si son veduti che due soli primi fascicoli..”; della carta non doveva avere conoscenza diretta dato che aggiunge in nota: “Il sig. ch. Lyell, nel ritorno che ha fatto nel 1858, ha portato seco la intiera carta topografica del barone Waltershausen, essa è mirabile lavoro per la precisione, per l’estrema diligenza per la verità – peccato che ne’ nomi di molti luoghi si è regolato secondo quanto gli dicevano le guide; le quali non essendo dei luoghi vicini davano nomi a capriccio”. Analogamente Gemmellaro non dà segno di essere a conoscenza dell’Atlante dell’Etna (1843 – 1861), o di averne consultato alcuno dei fascicoli via via pubblicati, come se avesse considerato le indagini del collega tedesco alla stregua di quelle condotte in “… passeggiere corse dei dotti viaggiatori che si servono spesso di leur lunettes per riconoscere la qualità delle rocce, o la inclinazione degli strati a distanza…” (Gemmellaro, 1866).
Al di là del valore scientifico del suo lavoro, illuminanti sulle situazioni che Sartorius aveva riscontrato nei suoi viaggi, sono le sue considerazioni sulle condizioni di vita e sui rapporti sociali. Ad esempio scrive che nel 1863 “tali erano le condizioni della Sicilia ancora alla fine del secolo XIX .. sembrava che l’interno dell’isola non avesse fatto il più piccolo progresso da più di una generazione. La superstizione, l’oscurantismo religioso, la corruzione morale, la povertà e il sudiciume oggi come ieri si danno la mano e la grazia del nuovo governo non ha ancora cominciato a farsi valere.” Nello stesso periodo esprime l’opinione che “senza un energico piano del governo, che naturalmente richiede costi elevati, non è possibile un nuovo rimboschimento delle montagne siciliane, che deve essere considerato come un problema vitale per la Sicilia.”, e riferisce che già allora Messina, situata tra due grandi fiumare arginate artificialmente, nei giorni precedenti al suo arrivo, aveva subito pesanti distruzioni e la morte di parecchie persone.
Renato Cristofolini
Dipartimento di Scienze Geologiche Università di Catania

“Nativity” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 14 – Marzo 2013
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