di Giuseppe Maggiore
Dopo aver appreso l’esistenza del DNA, quale aspetto della vita può essere assimilato oggi al concetto classico di anima? È questa la domanda che torna a porsi Edoardo Boncinelli con il suo ultimo libro “Quel che resta dell’anima” (Rizzoli, 2012).
Ci aveva già provato ne “Il cervello, la mente e l’anima” (Mondadori, 1999), dove però l’anima evocata nel titolo, lì rimase senza trovare nel corpo del testo una soddisfacente spiegazione. Di questo suo precedente libro, Boncinelli riprende alcuni concetti chiave, come quelli di energia e informazione, e in qualche modo cerca di fornirne una più ponderata chiarificazione, facendo coincidere proprio con l’informazione, nello specifico quella portata dal DNA di ogni organismo vivente, l’idea dell’anima. Boncinelli scrive: “Si potrebbe dunque intendere come anima della vita il genoma – non c’è vita senza genoma – e la sua interpretazione e attuazione. Se la vita ha un’anima, questa risiede nella vigile presenza del genoma.” L’anima, o l’essenza della vita, vista dunque come espressione di un processo presieduto dal genoma, mediante il quale ci è consentito di gestire l’energia e l’informazione prese dal mondo. L’uomo sì guidato da un intervento superiore, ma non nel senso inteso dalle dottrine religiose, piuttosto in quelle facoltà peculiari della mente. “Agli uomini – dice Boncinelli – piace molto parlare di ciò che non conoscono che non hanno mai visto e che probabilmente non vedranno mai. Il termine mente finisce allora per rappresentare tutto il trascendente in noi, prendendo così il posto dell’idea tradizionale di anima”. Spirito, mente, coscienza, sono del resto termini che oggi vengono utilizzati quasi indistintamente quando ci si riferisce all’anima, al punto da far dire all’autore che “Oggi non è più di moda parlare di anima, e molte delle caratteristiche a essa attribuite sono associate sempre più spesso al concetto di mente”.
Mente e anima erano di fatto già poste in stretta relazione nelle teorie prescientifiche fiorite nell’antica Grecia; è qui, con Socrate, che il concetto di anima (psyché) fa la prima apparizione nelle sue connotazioni antropologiche ed etico-morali, coincidente con l’io pensante di ognuno; un’anima su cui il padre della filosofia occidentale concentrò la sua riflessione filosofica e di cui esorta a prendersi cura; nell’Apologia di Socrate leggiamo infatti: “Tu, ottimo uomo, poiché sei ateniese, cittadino della Polis più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, per guadagnarne il più possibile, e della fama e dell’onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità, e della tua anima, perché diventi il più possibile buona?”.
Assimilata alla mente per designare quanto concerne il mondo interiore dell’uomo nonché la sua essenza sovrannaturale, l’anima compie dunque il suo ingresso nella storia del pensiero che nei secoli a venire vedrà avvicendarsi filosofi, teologi e psicologi. Scissa dal corpo e resa immortale nella sua ascendenza divina (Platone); sdoppiata in un’originaria “Anima superiore” legata al divino, e “Anima inferiore” che presiede al governo del cosmo e del corpo (Plotino); in tutt’uno con il corpo, e perciò stesso mortale, nella tripartizione vegetativa, sensitiva e intellettiva (Aristotele), l’anima non ha mai smesso di accompagnare l’uomo. La sua è soprattutto storia di un’idea, di un pensiero. Altro non può considerarsi che tale. Il suo essere impalpabile, immateriale, non può che relegarla o espanderla nelle varie concettualizzazioni e formulazioni di pensiero che di volta in volta ne saranno fatte. Ma è proprio questo il suo punto di forza e ciò che le garantisce una sicura immortalità. Per sua stessa natura l’anima si è prestata ad essere terreno fertile su cui innestare credenze che poi hanno finito con il plasmare intere civiltà e correnti di pensiero, e che trovano la loro ragion d’essere nella propensione dell’uomo, il quale, secondo quanto dice Boncinelli: “(…) non ama conoscere la verità, soprattutto se lo riguarda da vicino, e preferisce le nozioni confuse e inverificabili che conducono al fiorire delle mitologie, passate e presenti (…) È questa riposante immersione in regioni prelogiche che si conquista la nostra predilezione.”.
La parola anima, così come si è andata connotando lungo questi oltre duemila anni di teorizzazioni, reca inevitabilmente con sé un cospicuo corollario di termini – e di idee – non sempre di chiara definizione, e spesso usati in modo intercambiabile, se non inappropriato. Accanto ai termini “mente” e “informazione” già citati, ne incontriamo altri come coscienza, identità, emozione, razionalità, pensiero. Tutte parole che evocano un mondo interiore la cui complessità necessita di sempre nuove e più argomentate spiegazioni, ma anche parole che per la molteplicità di significati cui si prestano più che chiarire l’oggetto designato finiscono con l’aprire il varco a nuove domande in cerca di ulteriori risposte, in un dibattito che allo stato dell’arte non sembra possa esaurirsi tanto facilmente. Ci prova Boncinelli con questo suo saggio, e per prima cosa avverte l’esigenza di far chiarezza sulla semantica delle parole che entrano in gioco, proprio partendo dalla concezione tradizionale dell’anima e dalla molteplicità di termini concettuali a essa legati nel corso dei secoli. Definisce tali termini “parole-interruttore”, alla stregua di quelle come valori, bene, libertà, onore e giustizia: “Quando una di queste parole irrompe in una conversazione, all’improvviso tutto cambia: si alzano i toni, ci si appassiona, ci s’irrigidisce e si smette quasi automaticamente di ragionare, per affidarsi a frasi fatte e a slogan prefabbricati. A parlare non è più l’individuo razionale ma l’ambiente culturale, l’ideologia e l’a priori.” Una volta identificata l’anima con la mente, è necessario chiarire quindi cosa s’intende con gli altri cavillosi termini suffraganei.
Per descrivere il concetto di coscienza, ad esempio, Boncinelli utilizza l’immagine della clessidra, mutuando dal linguaggio informatico proprio dei calcolatori e da quello delle neuroscienze: “(…) si può assimilare la coscienza a una specie di clessidra. Un complesso di eventi nervosi paralleli viene costretto per un breve istante a serializzarsi, per dar luogo a una presa di coscienza e all’eventuale progettazione di una successiva azione; ma subito dopo tutto riguadagna il suo andamento parallelo necessario per il compimento dell’azione stessa. Prima, tutto è parallelo. Dopo, tutto ritorna parallelo. La contemplazione cosciente corrisponderebbe al breve istante della serialità (coincidente con la strozzatura della clessidra ndr.)”. Un’immagine che per quanto originale, non dà a nostro avviso piena giustizia alla complessità del concetto di coscienza. Lo stesso autore ammette d’altra parte che lo studio scientifico della coscienza è appena all’inizio e che se risulta meno problematico quando lo si affronta in termini collettivi, diventa invece più complicato quando bisogna applicarlo alla presa di coscienza individuale e soggettiva, là dove i contenuti sfuggono al controllo di questo tipo di analisi. Analogamente l’idea del pensiero, secondo l’autore, per quanto ci appaia ricca nella complessità dei nostri comportamenti e delle nostre percezioni, piuttosto che come una funzione dell’anima, va inquadrata in maniera appropriata nella cornice biologica, come risultato del lavoro di molecole e circuiti nervosi, alla stregua di quanto accade nel sistema di elaborazione di un computer. Il nodo spinoso con cui però Boncinelli, al pari di una folta schiera di filosofi della mente e neuroscienziati, si trova a dover fare i conti è quello, consequenziale, che concerne la questione della libertà o del libero arbitrio. In un siffatto mondo governato da leggi fisiche in cui è il nostro cervello a decidere ed ogni nostro moto interiore o stato mentale scaturisce dagli stati cerebrali, cosa rimane del libero arbitrio? Boncinelli propone a riguardo la seguente riflessione: “Se il mio io si estende a tutto il mio corpo, allora non c’è dubbio che a decidere sono sempre io, ovviamente in assenza di coercizioni esterne. Paradossalmente, se invece l’io è inteso come un’istanza immateriale di natura autoreferenziale e distinta dal corpo stesso, l’anima appunto, allora l’esistenza del libero arbitrio è messa seriamente in dubbio dalle indagini sperimentali”. Ipotesi interessante e che certamente non mancherà di far discutere, trattandosi di uno dei temi più dibattuti tanto sul piano filosofico, quanto su quello etico e religioso. Ma si tratta allo stato attuale pur sempre di un’ipotesi, una delle tante di cui è costellato il libro in ogni sua parte.
Come nel già citato “Il cervello, la mente e l’anima”, alla fine di questo nuovo saggio, si ha l’impressione di vedere inattese le promesse enunciate dal titolo. Nel 2000, in occasione dell’assegnazione del premio Nobel per la medicina a Arvid Carlsson, Eric Kandel e Paul Greengard, Rita Levi Montalcini in un’intervista curata da Giovanni Maria Pace dice: “Avrà notato che da alcuni anni il maggior numero di premi Nobel va ai neuroscienziati. Una tale concentrazione di sapere lascia prevedere come prossima la soluzione del problema dei problemi, la risposta alla madre di tutte le domande: che cos’è la coscienza? Voglio dire che le neuroscienze, insieme con le scienze cognitive, sono oggi l’avanguardia intellettuale che ci farà decifrare l’essenza della specie umana”. Alla domanda: “Quanto manca alla scoperta dell’anima?”; la Montalcini risponde: “Parlare di date è difficile. Tuttavia il progresso è così rapido, grazie anche all’enorme sviluppo dell’informatica, e così esteso che non dovrebbe tardare. Capiremo che cosa sono l’autocoscienza, la conoscenza, la creatività umana”.
Sono trascorsi dodici anni dall’ottimistica affermazione della Montalcini e, stando agli attuali traguardi, la scienza che indaga la vita nei suoi molteplici aspetti inerenti il pensiero (la memoria, l’esperienza, l’apprendimento, la consapevolezza, il sé, la coscienza) non pare avere ancora raggiunto risultati soddisfacenti tali da riscattarli dall’ambito della metafisica e di poterci fornire spiegazioni più convincenti. Del resto lo stesso Boncinelli ci ricorda l’avvertimento del grande fisico Erwin Schrödinger: “il pericolo più grave di ricorrere a spiegazioni insoddisfacenti non è tanto quello di dire bugie, ma quello di sopprimere l’esigenza di cercarne una accettabile”.
Giuseppe Maggiore
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