MARIANNA… E LE ALTRE – In ricordo di Marianna Manduca a cinque anni dall’omicidio

di Domenica Rossitto

 

A volte, nei labirinti della memoria, i ricordi che credevi archiviati e riposti per sempre si ripresentano pulsanti, affatto scoloriti, così all’improvviso  semplicemente attraverso l’ascolto di una parola, la pronuncia di un nome, il ripetersi di un’emozione. A chi scrive è successo leggendo un articolo sul precedente numero di questa rivista. L’articolo a cui faccio riferimento è quello di alcune alunne di scuola media che “sognando una Palagonia migliore” ricordano ai “grandi”  di non dimenticare il nome di Michele Megna.

Anni fa un filo sottile ha strettamente saldato questo nome a quello di Marianna. Per raccontare questa storia è fondamentale raccontare altre storie che ad un certo momento, in un luogo preciso e in un tempo definito, si sono intrecciate a quella di Marianna. Circa sei anni fa mi fu affidato l’incarico come psicologo nei corsi di formazione alla genitorialità. Io svolgevo il mio incarico a stretto contatto con altre due figure professionali, e nei vari incontri di preparazione del corso, si era giunti ad un’alchimia insolita rispetto al classico e tradizionale percorso formativo dove gli esperti si posizionano ad un gradino più alto rispetto al resto del gruppo: uno psicologo, un neuropsichiatra infantile e un esperto in linguaggio cinematografico che non si preoccupavano di dissertare su questa o quella questione, ma ascoltavano, e restituivano impressioni o momenti di riflessione sui più svariati argomenti, supportati da un linguaggio comunicativo, coinvolgente e originale, creato dalle immagini  e dai suoni di un film. Il risultato fu incredibile, invece, del temuto “calo fisiologico”, le partecipanti aumentavano. E, sottolineo, le partecipanti perché, tranne rarissime eccezioni, in questo corso si iscrivevano solo donne (chissà perché quando si parla di figli e di educazione si sentono parte in causa solo le donne). Loro sono state lo spirito e il corpo vitale di ogni incontro. Il loro contributo è stato fondamentale per creare “un posto nuovo”, non certamente fisico, considerato che questo poteva cambiare di volta in volta, ma mentale, da percorrere attraverso la libertà di espressione, la capacità di ascolto e di scambio reciproco tra tutti i presenti, nessuno escluso. Ad ogni incontro imparavamo qualcosa sugli altri e su noi stessi. E ad un certo punto si cominciarono ad invitare anche le amiche poiché qualcosa di bello lo devi condividere con chi è prossimo al tuo cuore. In questo luogo ho conosciuto Marianna.

Marianna ha portato, con la sua storia e il suo vissuto, nuovi interrogativi e nuove consapevolezze: su com’è difficile per le donne che vivono nel nostro paese trovare spazi per esprimersi, al di là dei pregiudizi e delle frasi di comodo; com’è faticoso poter vivere e lavorare se non sei protetta da un marito; come può essere avvilente combattere contro il giudizio o l’indifferenza di chi invece dovrebbe comprendere ed esserti vicino. Se questo posto sia Palagonia o l’Italia poco importa, la cronaca ci mette davanti una realtà che mortifica la volontà e i bisogni delle donne, sul piano sociale, economico ma, soprattutto, attraverso un’insufficiente rappresentanza politica ed istituzionale. Pertanto,  negli incontri in cui affioravano temi più squisitamente “sociali” si insinuava pessimismo e sfiducia, tranne una volta quando si pronunciò il nome di Michele Megna.

Michele ha rappresentato molte cose per la nostra comunità. Il suo nome è denso di significati: amore per il proprio paese, incondizionato e disinteressato, uomo libero, essere fuori dagli schemi. E fu proprio Marianna ad avere l’idea di girare un documentario amatoriale su Michele. Lei che, dopo tante sofferenze e vicissitudini, per amore dei suoi figli stava ritrovando sé stessa e la voglia di ricominciare a sperare in un futuro migliore. Dunque, volevamo incontrare Michele e fare una sorta di intervista, purtroppo le circostanze non lo permettevano, ed una buona soluzione ci parve essere quella di documentare il racconto delle persone che gli erano state vicine, e la nostra scelta cadde su Santo Grasso. Così realizzammo un video.  Nell’intervista il nostro narratore alternava momenti dove i ricordi fluivano  liberamente, ad altri dove veniva “pungolato” dalle intervistatrici. Quel lavoro ci mostrò aspetti conosciuti, ed altri inediti, ad esempio il rapporto di Michele con le donne, il profondo rispetto che aveva per la figura femminile. (questa testimonianza è conservata negli archivi dell’Istituto Comprensivo Gaetano Ponte di Palagonia). Il viso di Marianna non c’è nel video, però credo che sia giusto ricordarla perché è l’ultima cosa che è riuscita a realizzare.

Qualche mese dopo fu uccisa per mano di colui che tutti chiamavano marito. Quell’avvenimento così tragico e brutale sconvolse l’intera comunità, in particolare per coloro che l’avevano conosciuta grazie a quell’esperienza, fu sconcertante. Contro la violenza brutale e cieca le donne non hanno mezzi per difendersi. La stessa dinamica del delitto è inquietante: avvenuto in pieno giorno, pubblicamente. A dispetto di altri avvenimenti delittuosi che avevano in passato segnato la nostra storia, questo conteneva in sé dinamiche non solo relazionali e private. Il principe azzurro che si trasforma in Barbablù è diventata una favola crudele dei nostri giorni. Come può trasformarsi in carnefice la persona scelta come compagno per la vita? Il conflitto di coppia, più che essere un’eccezione, è spesso la regola. Il nodo cruciale sta nella capacità di gestione non solo della coppia, ma della comunità di riferimento in generale. Spesso, nella realtà della coppia, esiste un linguaggio dicotomico e assoluto che rispecchia anche un pensiero e un sentimento cristallizzato su ciò che è il ruolo dell’uomo e della donna nella nostra società.

La relazione di coppia che si presenta come il risultato idilliaco di un amore, in realtà, affonda le sue radici nei dogmatismi di “un pensiero saturo”. (Di Maria F., Lavanco G. 1995, Psicologia Contemporanea n. 130 ed. Giunti). Gli autori di questo bellissimo articolo, “ Ti amo da farti morire” sul conflitto e sull’aggressività nella coppia, ci descrivono il “pensiero saturo” come il modus operandi di vivere una relazione attraverso un sistema dicotomico, in cui l’altro è il portatore di diversità intollerabili che mettono a repentaglio la nostra identità. Questa forma di pensiero genera un contesto culturale che replica tale modello allo scopo di contenere l’ansia, e di preservare codici familiari conosciuti che il cambiamento metterebbe in pericolo. Ed è proprio nella rigidità dei ruoli che vi è garanzia di stabilità, ma allo stesso tempo, crea un meccanismo che nega il confronto e lo scambio. Inoltre, esso è socialmente riconoscibile, replicabile e tramandabile, dunque rassicurante.

E se la violenza e il delitto tra le mura domestiche non fossero altro che la semplificazione di questo tipo di cultura, e non, come spesso si crede, l’allentamento dei codici familiari, ma al contrario la loro indiscutibilità ed esasperazione? Le donne sono le principali vittime di questi rigidi canoni. Sfuggire a una visione dogmatica non è semplice, considerando che sono le donne a pagare le conseguenze di una concezione così inflessibile, sia in ambito privato che pubblico. Non posso non segnalare la mancanza di visibilità che le donne hanno avuto  nelle ultime amministrazioni comunali, tranne in ruoli secondari o di immagine (soltanto nelle ultime elezioni amministrative questa tendenza sembra essere cambiata), o l’assoluta indifferenza verso le richieste avanzate in questi anni su temi come l’istruzione e la sicurezza nelle scuole, le attività educative extrascolastiche e ricreative, che tanto sarebbero state di aiuto  alle mamme lavoratrici. Forse, è una correlazione troppo azzardata, non ho certamente dati statistici per dimostrarlo, ma il totale disprezzo che si è dimostrato nei confronti dei bisogni e delle richieste delle donne, ha contribuito ad alimentare episodi di violenza, di violenza conclamata, accanto ad una violenza più silenziosa e più diffusa nei confronti della parte più debole che non aveva mezzi sufficienti per far sentire la propria voce. Alla coppia si chiede grande capacità di sopportazione, ma la sopportazione diventa quasi sempre una  prerogativa femminile. Così le parole che delineano il ruolo femminile sono sacrificio, sopportazione e silenzio. Le donne si sacrificano sempre per il bene di qualcun altro. Ed esse stesse in fondo si convincono che questo sia giusto e sia l’unica strada possibile, giungendo perfino a giustificare la prevaricazione e condannando chi non vi si piega.

Ebbene c’è chi crede e spera, come Michele e Marianna, che altre strade siano percorribili, quelle del rispetto e del dialogo, sia uomini che donne che devono impegnarsi per costruire un futuro migliore e una Palagonia migliore, prima che per qualcun altro, per noi stessi.

Domenica Rossitto

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