Parlare di femminismo non è per niente facile. La ragione è tanto semplice, quanto banale. Il femminismo non esiste. Esistono i femminismi, al plurale, e cioè esiste un’eterogeneità di fondo che ha da sempre connotato questo, chiamiamolo pure, movimento. La varietà di orientamenti e indirizzi ha tanto innervato il femminismo come quando l’edera, attaccandosi al muro, lo aggroviglia in modo da rendere irriconoscibile il traliccio dal quale tutto ha avuto inizio. In virtù di una tale complessità, l’argomento potrebbe essere affrontato da diversi punti di vista. Si potrebbe ricostruirne la parabola storica, con le sue tre ondate principali e le varie sotto-diramazioni. Ma questa non è la sede più opportuna per farlo a ragione delle ristrettezze di spazio qui imposte. E inoltre, quell’angolatura porterebbe – nolenti o dolenti – a riconoscere che la terza ondata, quella degli anni Novanta, pur consapevole dei vantaggi derivanti da un adeguato sfruttamento dei mass media per farsi conoscere al grande pubblico, non è veramente entrata nei cuori della gente. È come se i prodotti – spesso accademici – di questa terza ondata non abbiano veramente innovato la condizione delle donne. Eppure l’indagare, come appunto fa la terza ondata, la storia delle donne, la letteratura delle donne, l’arte delle donne … ha l’evidente merito di far finalmente luce attorno al ruolo e alle potenzialità che da sempre hanno avuto le donne. Un ruolo che per troppo tempo è rimasto, però, oscurato da canoni assai misogini.
Anche gli Studi culturali – settore disciplinare che sta prendendo piede, tra mille difficoltà (si veda in proposito la denuncia/appello del professore Perniola riguardo alla paura suscitata proprio da questa disciplina) nelle università italiane – contribuiscono a portare a galla il contributo delle donne e del femminismo. Un secondo punto di vista che si potrebbe adottare si rivolge al mondo del diritto. Un excursus delle conquiste giuridiche permetterebbe, infatti, di sottolineare quali e quanti traguardi il femminismo è riuscito a produrre. Ma ancora una volta, una tal scelta condurrebbe verso un percorso irto di problematiche. I risultati sono sì numerosi (con un apice particolare raggiunto con le conquiste degli anni Settanta) da impedire una trattazione unitaria. Ecco, quindi, che la scelta migliore che si possa fare per rispettare le esigenze della sede che qui ci ospita, ci porta a privilegiare un altro punto di vista. Sfogliare uno dei saggi (se a ciò possa mai essere ridotto) che ha costituito un impareggiabile punto di riferimento per il movimento femminista (e non solo), e capire se a oggi la situazione delle donne sia cambiata.
Scritto negli anni della prima ondata del femminismo – i primi decenni del Novecento – Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, con un percorso che amalgama sapientemente fantasia, autobiografia e riflessione, è ricco di suggerimenti e analisi della situazione femminile che, secondo l’autrice, impediscono la vera emancipazione delle donne. Per Virginia Woolf, erano soprattutto le condizioni materiali (una casa, del denaro proprio, del tempo libero …) a costituire elementi indispensabili affinché le giovani donne a cui si rivolgeva potessero finalmente diventare scrittrici e indagare qualsiasi, e sottolineo qualsiasi, argomento. Ma la riflessione della scrittrice inglese può essere facilmente estesa anche ad altri ambiti, non solo la letteratura. Le condizioni materiali, infatti, non giovano solo alla giovane donna che vuole poter scrivere liberamente, esulando, magari, dalle impostazioni maschili e maschiliste di buona scrittura, ma anche a qualunque donna che vuole semplicemente vivere e pensare liberamente. Eppure a quasi un secolo di distanza (il saggio è del 1927), le donne continuano a essere generalmente sottopagate rispetto agli uomini. E tutto ciò nonostante, oggi, le donne siano più presenti, nel mondo del lavoro, di quanto forse non lo fossero allora. Si accetti quel forse, quel dubbio al riguardo perché gli studi recenti dimostrano che le donne hanno sempre lavorato, anche nel passato.
Certo l’hanno fatto in modi poco visibili, semplicemente perché “esterni” alle regole imposte da un mondo maschile. Ma quel che conta è che l’abbiano fatto. Altra questione ben affrontata in Una stanza tutta per sé riguarda le maggiori difficoltà che una donna incontra rispetto a un uomo, qualora decida di seguire un proprio sogno, magari decida semplicemente di fare ciò che un qualunque uomo fa abitualmente. Nel testo, è l’episodio della sorella di Shakespeare che riassume meglio la questione. Se mai fosse esistita una sorella del grande drammaturgo inglese e avesse avuto esattamente le stesse doti del fratello, sarebbe stato per lei assai improbabile, se non impossibile, ci dice Virginia Woolf, riuscire a realizzare il proprio sogno e le proprie potenzialità. Nel saggio, infatti, il solo destino riservato a quell’ipotetica donna è la morte e la sepoltura in un luogo non consacrato, il crocevia di Elephant and Castle. Vittima di ricatti e costretta a deplorevoli compromessi, quella donna che sognava, al pari del fratello, il teatro e la scrittura è rimasta schiacciata dagli schemi e dalle categorie sociali. Un terzo punto, che tuttavia non esaurisce gli spunti e le idee di Una stanza tutta per sé, riguarda un altro celebre passo: Chloe Likes Olivia. Una frase che sintetizza il benvenuto che Virginia Woolf offre all’avvento di una letteratura in cui le donne non sono più personaggi monchi. Monchi perché, tradizionalmente, nelle opere letterarie, le figure femminili sono sempre state disegnate come persone in relazione con uomini – madri, mogli, amanti – mai in relazione con altre donne.
È pur vero che dialoghi e rapporti concernenti madri e figlie o sorelle hanno avuto il merito di essere indagate nella letteratura. Ma, a ben vedere, si tratta di relazioni che si esauriscono nel mondo familiare. Come a dire che la vita delle donne si compie ed esaurisce entro le mura domestiche e che non sono ammissibili amicizie coltivate fuori da quello schema. Virginia Woolf mostra quindi la sua compiacenza e curiosità davanti all’innovazione letteraria che, finalmente, decide di guardare quello che le donne fanno quando sono insieme con altre donne. Certo i temi del saggio di Virginia Woolf non si esauriscono qui. Ma ci basti portare in evidenza questi tre argomenti per chiederci come essi siano affrontati nella società di oggi. Si è già detto che per quanto riguarda le condizioni materiali viviamo un presente che, dal punto di vista salariale, impone una differenza di trattamento tra uomini e donne, a tutto svantaggio delle seconde. Ciononostante non si è ancora ricordato che la disoccupazione femminile, nel nostro Paese, tocca picchi ben più alti di quanto non accada altrove. Una situazione preoccupante che non può certo spiegarsi con l’idea per cui le donne decidano di essere mamme chiocce tutte dedite a figli e famiglia che, pertanto, decidono di rinunciare alla propria carriera. C’è dell’altro, ma spesso si fa finta di non vedere. Inoltre, anche quando le donne riescono a entrare nel mondo del lavoro, fanno più fatica dei colleghi uomini a salire i gradini di una carriera in ascesa. Solo poche lavoratrici, infatti, raggiungono i vertici, i “posti alti”. I sociologi parlano al riguardo di una sorta di soffitto di vetro che c’è ma non si vede, una presenza che blocca le legittime aspirazioni delle donne.
Svariati elementi contribuiscono a costruire quel soffitto: senso di frustrazione avvertito dalle donne qualora si sottragga troppo tempo alla famiglia, scarsa solidarietà femminile in ambito lavorativo e così via. In particolare, si tratterebbe di ragioni che trovano la loro ratio di fondo nella difficile possibilità di conciliare due ruoli che per troppi secoli la società maschile ha tenuto separati. La vita tra le mura domestiche e quella fuori da esse. Passando alla seconda tematica, e cioè alle maggiori difficoltà che le donne affrontano quando intraprendano la strada che conduce alla realizzazione dei propri sogni, si constata ancora una volta che, nonostante i miglioramenti rispetto al 1927, non tutti i problemi sono stati risolti. I pregiudizi d’abbattere sono spesso parecchi. Ricordandone solo uno, si potrebbe parlare della questione del diverso percorso formativo, anche universitario, compiuto da uomini e donne. Sappiamo tutti che le facoltà scientifiche sono frequentate soprattutto da ragazzi, mentre le ragazze affollano quelle umanistiche. Certo non è questa una differenza netta e insindacabile, soprattutto perché indirizzi quali giurisprudenza e scienze politiche, che a buon diritto rientrano nel novero dei settori umanistici, sono frequentati da uomini e donne in percentuali simili. Ma se lo sguardo si sposta verso indirizzi quali lettere, lingue o scienze della formazione la presenza femminile è schiacciante. Mentre, dall’altro lato, la facoltà d’ingegneria continua a essere un dominio prettamente maschile. La sola domanda da porsi è perché.
La risposta più immediata indicherebbe nella differenza tra uomini e donne – una differenza, si ricordi, naturale e più che legittima – la giustificazione a quel dato di fatto. Ma, a ben guardare, la risposta a quel perché giace altrove. È il modo d’insegnare e di proporre una disciplina che segna un punto di rottura. Un esempio potrebbe chiarire tutto. Nel sistema educativo occidentale si ritiene che l’apprendimento e lo studio dei logaritmi sia tanto complesso da poter essere previsto solo nei piani di studio degli ultimi anni di formazione secondaria. Eppure, in Russia, i logaritmi sono insegnati a bambini di scuola primaria. Non possiamo pensare che i bimbi russi siano dotati di qualità intellettive superiori rispetto agli italiani. Ciò che cambia è semplicemente il modo con cui quell’argomento è proposto. In Italia lo si propone in modo da risultare agevole alle capacità di un ragazzo già grande, in Russia, invece, si sceglie un’altra via. Da ciò si desume facilmente che qualsiasi tema può essere piegato alle esigenze dell’interlocutore che si ha davanti. Ciò, quindi, vuol dire che le discipline scientifiche potrebbero trovare, in Italia, anche l’apprezzamento e la curiosità delle donne solo quando quei temi saranno proposti tenendo conto anche delle loro specificità. Non si tratta di caratteristiche inferiori rispetto a quelle degli uomini, ma solo diverse.
La questione appena sollevata permette finalmente di ricongiungersi allo scritto di Virginia Woolf. Il sistema sociale continua, anche oggi, a frapporre ostacoli maggiori alle donne che vogliano seguire la propria strada. Giungendo al terzo nodo, la presenza di personaggi femminili “completi” nella letteratura, altre curiosità possono essere ricordate. In particolare si noti che la letteratura ha ormai superato il “complesso delle donne monche” (chiamiamolo pure così). Ma per le altre arti non può dirsi altrettanto. Il grande schermo e ancor di più il piccolo, per esempio, sembrano non aver superato ancora quel dilemma. Esiste un semplicissimo test che può essere condotto da chiunque per valutare, in questi termini, i film. Ma il test, a ben vedere, potrebbe essere usato anche per trasmissioni televisive o altro. Si tratta del Bechdel test. Basta guardare il film considerato e rispondere a tre semplici domande. Nel film, sono presenti almeno due personaggi femminili che non siano semplici comparse, ma che abbiano dei nomi? E se questi personaggi ci sono, si relazionano mai tra di loro? E, infine, se queste donne parlano tra loro, affrontano mai argomenti diversi rispetto al tema uomini? È soprattutto dinnanzi al terzo quesito che la maggior parte dei film cade, non riuscendo così a superare il test.
La situazione delle donne, quindi, appare ancora critica, anche se è migliorata rispetto a quel 1927 in cui Virginia Woolf scriveva. Ma ancora c’è molto da fare. Ecco perché non bisogna fermarsi. Tra l’altro, nel XIX secolo, Charles Fourier enunciò la tesi secondo cui il grado di emancipazione della donna misura il progresso generale di una società. Di fronte a un simile appello, tutti, uomini e donne, non possono stare con le mani in mano.
Vanessa Pillirone
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