Guai a potare i fichi e gli altri alberi da frutto,
era contento solo quando si vedeva circondato
da una natura selvaggia come la sua.
(G. Vasari, Le Vite, da Piero di Cosimo ovvero Il maledettismo non paga, trad. M. Cavalli)
Giorgio Vasari era un uomo del Cinquecento mosso da un’infinità di interessi, secondo forse solo a Leonardo in quanto a eclettismo: storiografo, architetto, pittore, protagonista e testimone di quell’inquieta e dinamica età di mezzo tra il Rinascimento e il Barocco nota come Manierismo. Nel corso dei secoli la sua figura è stata oggetto di continui ripensamenti, ora bruscamente ridimensionata ora temporaneamente riabilitata, e come spesso accade solo molto a posteriori si è riusciti a inquadrarne l’effettiva grandezza. In questa sede lasceremo da parte la sua attività parallela di pittore e architetto (tutt’altro che trascurabile) per analizzare più dettagliatamente quella di storiografo. Diremmo un’inesattezza se lo definissimo sbrigativamente l’inventore di un genere (e cioè quello storiografico-artistico) perché di precedenti, seppur meno strutturati, potremmo elencarne molti. La vera novità del testo vasariano risiede nell’inedita sistematizzazione dei dati allora reperibili, e soprattutto nell’adozione di uno schema narrativo insieme biografico-anedottico e critico-comparato. Nella compilazione delle vite degli artisti la sua intuizione più formidabile (e moderna) fu quella di far confluire quante più informazioni possibili attingendo dalle fonti più disparate, senza tralasciare il nutrito patrimonio orale. Si servì dei Commentari di Ghiberti, del Trattato di Cennino Cennini, del Libro di Antonio Billi, della Historia Longobardorum di Paolo Diacono, delle Cronache di Matteo e Giovanni Villani, degli scritti di Palladio, di Serlio, di Filarete, di Leon Battista Alberti, delle Vite dei papi di Platina, del Libro vecchio della Compagnia dei pittori fiorentini, delle Memorie del convento di San Marco, della corrispondenza privata di numerosi artisti… nonché di numerose fonti ignote oggi perdute.
Tutte queste informazioni isolate e frammentarie convergono per la prima volta in un resoconto unitario ragionato ed esaustivo, condite infratesto dalle considerazioni più svariate. Al dato biografico dell’artista di volta in volta preso in esame (la provenienza geografica, i trascorsi, l’apprendistato) Vasari affianca veri e propri ritratti psicologici: l’artista è descritto diffusamente anche nel suo carattere, nel suo temperamento, nelle sue inclinazioni, individuando così uno stretto legame tra la personalità e le caratteristiche tecnico-espressive del talento e dello stile. Le Vite vengono così a profilarsi non come schede asettiche di sapore enciclopedico o come meri elenchi ma come singole storie che interagiscono tra loro, singole tessere di una Storia dell’Arte ancora in fieri ma già significativamente delineata, una macchina sperimentale che seppur difettosa e rudimentale ha spianato la strada all’affinarsi progressivo di una nuova grande disciplina storica. Senza Vasari la Storia dell’Arte avrebbe affrontato un cammino di certo più impervio e tardivo.
La prima redazione delle Vite risale al 1550 ed è denominata edizione “torrentina” (dal nome dello stampatore ducale Lorenzo Torrentino); qui compare il titolo in esteso Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, e la dedica a Cosimo I de’ Medici. Una seconda redazione, riveduta e ampliata, vide la luce diciotto anni dopo nel 1568, ed è nota come edizione “giuntina” (dal nome degli stampatori ducali Giunti). Se nella torrentina vengono magnificati gli artisti toscani (primo fra tutti l’ineguagliato Michelangelo) per la maestria disegnativa e prospettica, nella giuntina trovano spazio anche i veneti (Tiziano in primis) lodati per l’impiego sapiente e tonale del colore. Questa distinzione tra la sensibilità toscana verso il segno e quella veneta verso il colore si attestò subito fra le più acute, ed è considerata per gran parte valida ancora oggi. Va detto però che l’autore delle Vite non brillò sempre per correttezza e oggettività, tanto saldo e militante era in lui il campanilismo fiorentino e certe prese di posizione tutt’altro che elastiche ed imparziali; in molte biografie non mancano infatti giudizi sentenziosi e deliberatamente personali (un po’ alla maniera di Dante nella Divina Commedia). Tuttavia sono proprio questi passaggi che oggi ai nostri occhi contribuiscono a rendere il testo ancora più ghiotto, e che lo affrancano letterariamente dal genere specialistico meramente storiografico.
Il metodo delle biografie, dicevamo, non era una novità assoluta. Vasari seppe però rielaborarle e disporle in successione, seppe relazionarle ciclicamente l’una all’altra, dai vagiti di Cimabue fino alle liriche di Michelangelo, come una sorta di stella che nasce, si irradia e poi si spegne, come ogni grande storia destinata a un gran finale. Per Vasari andare oltre il genio indiscutibile di Michelangelo, superare quella perfezione, non era possibile. Oltre Michelangelo poteva sussistere solo la maniera di Michelangelo, un manierismo con un modello di riferimento ben preciso. Prima, durante e dopo: questa tripartizione è denunciata dal Vasari già nell’edizione torrentina. Su grandi linee l’importanza del testo vasariano è per molti versi ascrivibile a quella del testo manzoniano. In entrambi i casi, infatti, viene a verificarsi quello che potremmo definire un “collaudo di genere”, più disarticolato e inconsapevole quello di Vasari e più programmatico e ragionato quello di Manzoni. Da una parte la Storia dell’Arte e dall’altra il Romanzo. Tanto nelle Vite quanto ne I promessi sposi, nonostante lo iato di quasi tre secoli, il dato che emerge per primo e che più affascina è il tentativo di individuare un canale linguistico, uno schema narrativo nelle trame vergini del linguaggio letterario, il tutto rapportato a una “lingua italiana” e a una grammatica non ancora compiutamente vocabolarizzate. Due opere letterarie distanti anni luce ma accomunate per l’appunto da questo pionierismo di fondo. Forse il paragone potrebbe suonare forzato ma di certo aiuta a comprendere la portata straordinaria dell’operazione vasariana.
Scrive Luigi Grassi: <<Non sempre al capolavoro si arriva in forma organica e sintetica: e propriamente il difetto di struttura organica si risolve in quell’aspetto o configurazione delle Vite vasariane, che è come un grandioso sistema orografico, con vette, valli, dirupi, luci, ombre, colori, aria e orizzonti.>> Il sottobosco umano e quotidiano delle Vite costituisce in parallelo forse il documento più prezioso che, sorprendentemente intatto, ci giunge da quell’epoca ormai così lontana. Schlosser, non a caso, si spinge a definire le Vite un “romanzo storico”. Al di là dell’Arte, infatti, e più in generale delle diverse caratteristiche tecnico-espressive di ciascuno dei centosettantotto artisti esaminati, è la Vita che emerge prepotentemente da questi racconti, una vita eroica e insieme così umana e quotidiana, una vita antica e al contempo così incredibilmente moderna. Ed è proprio la modernità che Marco Cavalli – già autore di una versione in italiano moderno della Vita di Benvenuto Cellini – riesce a restituire di queste vite, riconsegnandole a un linguaggio vivo, potente, presente, riesumandole da una lingua letteraria ormai troppo lontana, e comunque per la gran parte inaccessibile al lettore italiano contemporaneo.
I lettori stranieri, che hanno da sempre potuto beneficiare di traduzioni fluide e comprensibili, sono stati in tal senso più fortunati. <<Le Vite>> scrive Cavalli nella nota al testo <<non sfugge al paradosso che attanaglia i monumenti della prosa italiana del Cinquecento: se li si vuole leggere, bisogna prima studiarne la lingua. L’accesso alla letteratura italiana del passato segue da noi percorsi inversi rispetto a quelli battuti normalmente dalle altre letterature europee. Le altre nazioni leggono la loro letteratura e poi la studiano. Noi studiamo la nostra letteratura per poterla leggere – se avanza del tempo, e sempre che ce ne rimanga la voglia.>> Eccone qui di seguito un estratto fin troppo illuminante dalla vita di Giotto: <<Quell’obligo stesso che hanno gl’artefici pittori alla natura, la qual serve continuamente p <er> essempio a coloro che, cavando il buono dalle parti di lei migliori e più belle, di contrafarla et imitarla s’ingegnano, sempre avere per mio credere, si deve a Giotto pittore fiorentino: percioché, essendo stati sotterrati tanti anni dalle rovine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, per dono di Dio, quella che era per mala via, risuscitò et a tale forma ridusse, che si potette chiamar buona.>> Traduzione: <<La gratitudine di cui sono debitori alla natura i pittori quando s’ingegnano a ritrarla scegliendone le parti più belle e interessanti – quella gratitudine, noi la dobbiamo avere verso Giotto. Benché nato in un secolo di artisti evanescenti, lui solo, ispirato dal Cielo, ha saputo risuscitare la pittura, morta e sepolta sotto le macerie di anni di guerre, riportandola a un livello per lo meno dignitoso.>>
Tradotte nell’italiano di oggi le Vite si rianimano in un grande affresco d’insieme, in un vero e proprio romanzo che ha per protagonista l’uomo (o, se si preferisce, l’artista) dalle penombre del Medioevo alle luci abbaglianti del Rinascimento. Delle centosettantotto biografie Cavalli ne sceglie ventuno dall’edizione torrentina, operando una selezione ragionata per passare in rassegna tutte le modalità narrative del Vasari biografo. La lettura finalmente scorre fluida, godibile, perfettamente comprensibile, epurata dagli ostacoli e dai rallentamenti imposti dal toscano cinquecentesco. La traduzione da un italiano all’altro colma definitivamente la distanza storica e fa sì che la voce dell’autore, scavalcando la bellezza di quasi mezzo millennio con una sola ardita falcata, torni a parlare nitida, vicina, affettuosa. Tra le operazioni analoghe è doveroso menzionare quella pionieristica di Aldo Busi con la straordinaria traduzione del Decamerone di Boccaccio (1990-91). Segnaliamo inoltre la recente traduzione delle Vite (edizione giuntina) curata da Giancarlo Dal Pozzo (Passigli, 2011); Dal Pozzo la definisce una riscrittura, tuttavia le sue versioni vasariane mantengono verso il testo originale i riguardi di una traduzione vera e propria.
La traduzione di Cavalli rende finalmente accessibile a un pubblico più vasto un testo tra i più fondamentali del nostro patrimonio storico, un testo rimasto per troppi secoli blindato, prima appannaggio esclusivo di soli studiosi e specialisti. L’impresa di riscrittura, lungi dal risolversi in una semplificazione, non sacrifica nulla della letterarietà originaria vasariana, anzi ne amplifica i contrasti e le sfumature. Tra tutte le biografie quella che emerge più inaspettatamente è proprio quella del Vasari, il suo punto di vista, le sue predilezioni, i suoi limiti, i suoi condizionamenti culturali, finanche la sua ironia, come se nel ritrarre gli altri non avesse fatto altro che comporre gradatamente e parallelamente un ritratto viepiù dettagliato di se stesso. L’opera, per come questa traduzione ce l’ha finalmente restituita, si offre contemporaneamente su più piani di lettura, in un bilanciamento perfetto tra testo storiografico e testo letterario. Ai passaggi tecnici e manualistici, infatti, si affiancano sempre le digressioni sugli aspetti umani più curiosi. Si legga questo passo divertentissimo sulla personalità di Piero di Cosimo: <<…Già allora Piero era noto per la stravaganza dell’indole e per i virtuosismi di cui dava prova. Che fosse strambo lo si capì ancor meglio dopo la morte di Cosimo: se ne stava tutto il giorno barricato in casa, non sopportava di avere gente tra i piedi mentre era al lavoro. Il suo era lo stile di vita di un animale più che di un uomo. Non voleva che si facesse pulizia in casa, mangiava quando ne aveva voglia, non si prendeva cura dell’orto, non raccoglieva niente, anzi lasciava crescere le viti fino a che i tralci non cadevano a terra. Guai a potare i fichi e gli altri alberi da frutto, era contento solo quando si vedeva circondato da una natura selvaggia come la sua. Per giustificarsi diceva che la cura delle cose della natura spetta alla natura e che nessun altro deve impicciarsene.>>
Dietro lo splendore dell’artista ci sono sempre le ombre dell’uomo: le sue ossessioni, le sue miserie, le sue ambizioni, e poi le invidie, le rivalità, le contraddizioni, le inquietudini; nell’ordito del racconto Vasari intreccia un campionario eterogeneo di informazioni mescolando pettegolezzi e inesattezze ai dati reali, contaminando le cronache attendibili con aneddoti improbabili, facendo convivere in un unico organismo leggenda e memoria storica, ed è qui che il confine tra il rigore dello storiografo e la licenza del romanziere si fa straordinariamente labile.
La traduzione operata da Marco Cavalli ha il pregio di mettere in risalto proprio questo aspetto, restituendoci un Vasari come mai l’avevamo letto.
Massimiliano Sardina
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