LA SACRA PIGNA Gli antichi riti di Cibele e Febronia

di Giuseppe Maggiore

“Il festino in onore di lei dura dal pomeriggio della Domenica di Pasqua al martedì, senza contare un ottavario, che fa seguito al triduo. Rileviamone le cose principali. La sera del lunedì un popolo immenso si riversa nella Madre-Chiesa per assistere ad una funzione, veramente curiosa. Sull’altare maggiore sta preparato come un tronco di albero, il quale tutto ad un colpo si schiude in due parti, e lascia vedere la monachella Febronia in atto di preghiera. Sensibilmente poi dal soffitto comincia a scendere una miriade di angeli, due dei quali portano in mano una corona che posano sul capo della santa; costei, incoronata, va in estasi fra quella schiera di angeli, mentre da tutta la gente si levano disperate grida di: Viva S. Febronia!”. Così lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè riferisce all’inizio del ‘900, nel suo Feste Patronali in Sicilia, in merito alla festa di Santa Febronia a Palagonia. All’epoca cui ci riferiamo, tale festa aveva luogo subito dopo Pasqua, tanto da far passare in secondo piano l’importante festività pasquale e da far assumere alla festa patronale la valenza di vera e propria “pasqua palagonese”; questo fino agli anni ’60 del secolo scorso, quando l’autorità ecclesiastica dispose lo spostamento della festa di s. Febronia al 25 giugno, “dies natalis” della santa.

Proveremo in questa sede a individuare delle eventuali analogie dei riti febroniani a Palagonia con altri più remoti riti di ascendenza a culti pagani. L’evento sopra descritto si riferisce alla rappresentazione scenica nota con il nome di “Spaccata ‘o pignu” che oggi come allora ha luogo in chiesa madre la sera della vigilia di S. Febronia (oggi il 24 giugno): sull’altare maggiore di detta chiesa campeggia una grande pigna che schiudendosi svela al suo interno la figura di una monachella, alias Febronia, la quale, coronata da due angeli ascende al cielo tra le entusiastiche acclamazioni dei numerosi fedeli che gremiscono il luogo sacro. È probabile che in passato tale rito avesse un’enfasi maggiore rispetto al presente e che col passare del tempo abbia subito non poche trasformazioni: è innanzitutto interessante notare che il Pitrè ci descrive la presenza “come di un tronco d’albero” non già di una pigna; come del resto sembra suggerirci il nome stesso, nella sua declinazione al maschile “Spaccata ‘o pignu” (letteralmente “spaccata al pino”). L’interpretazione canonica che viene data oggi a tale rituale, vuole vedere simboleggiato nella pigna il corpo materiale che a seguito dei numerosi tormenti patiti col martirio, lascia volare libera l’anima della casta eroina, condotta dagli angeli in paradiso. Prima di avviare la nostra indagine su altre possibili ascendenze e interpretazioni da dare a questo rito, è bene considerare anche il secondo momento che ha luogo subito dopo tale rappresentazione. L’evento più atteso della serata è infatti l’apertura del sacello in cui è custodita l’immagine di Santa Febronia, che appare sfavillante in tutta la sua argentea luce suscitando l’ammirato stupore dei fedeli. È qui che si assiste a un vero e proprio exploit di urla e di applausi, soprattutto da parte degli uomini, mentre il fercolo della Santa, dopo varie corse avanti e indietro lungo la navata centrale della chiesa, viene condotto fuori e salutato da fuochi pirotecnici e allegre marce eseguite dalle bande musicali. Fino a un recente passato questi momenti hanno fatto trepidare non poco le autorità civili e religiose, poiché non di rado, gruppi di devoti in preda ai fumi dell’alcol formavano opposte fazioni per contendersi il trasporto del sacro fercolo, tanto da sfociare in vere e proprie risse sia dentro le mura della chiesa che sul sagrato esterno, mentre imponevano alle bande musicali di eseguire allegre marce su cui far “ballare” tale fercolo. La curiosa presenza della pigna quale elemento caratterizzante di questo rito, insieme alla fragorosa esplosione di euforia cui si lasciano andare i presenti ci portano dunque a compiere un’ulteriore indagine nell’ambito di quel ricco deposito di tradizioni pagane confluite e risemantizzate dal cristianesimo.

È nel culto tributato nell’antichità alla dea Cibele e al suo figlio-amante Attis che troviamo le più evidenti analogie. Tale culto, avuto origine nelle regioni dell’Asia Minore, e confluito nel pantheon delle divinità greco-romane copre un arco temporale che va dall’8000 a. C. a oggi. La grande Dea Pagana Cibele (Kybele: “Keh – Ba’al – Leh” – colei che dimora nelle caverne), è dunque la più antica Dea conosciuta dalla storia, archetipo delle varie personificazioni dietro le quali si celebra la Grande Madre. Una delle più antiche raffigurazioni, risalente a 8000 anni fa, la rappresenta acquattata in procinto di partorire, affiancata da due leopardi in seguito sostituiti da leoni; generalmente ha il capo cinto da una corona muralis, ossia una corona recante delle torri stilizzate, e tiene in mano un tamburello; la sua adorazione era di frequente associata con quella del Toro Celeste. In epoca classica il maggiore centro propulsore del suo culto era Pessinunte, città della Frigia. Presso i Romani, il culto della dea anatolica pervenne nel 204 a. C. rappresentato dal suo simbolo più sacro, un meteorite che si riteneva prodigiosamente caduto dal cielo. Presso tutti i popoli che la adoravano era ritenuta la Magna Mater degli Dei, degli uomini e degli animali, nonché della natura selvaggia, e appellata anche come Madre Montagna. Dal mito riguardante il suo figlio-amante Attis, Dio della fertilità, eviratosi ai piedi di un albero di pino e dissanguatosi fino alla morte, trae origine la particolarità dei riti di natura orgiastica a Lei dedicati, i quali prevedevano anche l’automutilazione dei genitali. Alle annuali celebrazioni che si svolgevano a Roma in epoca imperiale, tra il 15 ed il 27 marzo, in concomitanza con l’equinozio di primavera, un albero di pino veniva tagliato e, avvolto in un sudario di vello come si trattasse di una salma, veniva solennemente portato in processione al tempio della Dea, situato sul colle Palatino, e adornato di violette ritenute germogliate dal sangue stesso di Attis, veniva adorato come personificazione del dio stesso. Il 24 marzo, il “Dies Sanguinis”, all’altare della Dea il sacerdote più importante, chiamato Arci-Gallus, si procurava ferite alle braccia per trarne il sangue da offrirle in dono al suono di cimbali, tamburi, e flauti, mentre il clero minore e i fedeli si scioglievano in danze vorticose procurandosi a loro volta delle ferite sul corpo e cospargendo così di sangue il pino sacro e l’altare stesso della Dea. Il momento successivo delle celebrazioni prevedeva che il pino, rappresentante il corpo del dio defunto, una volta privato del sudario di morte, fosse acclamato nella sua resurrezione con un’esplosione di gioia in cui i fedeli si scioglievano in canti e grida, mentre talune, vestite con piume di pavone, recavano in mano una torcia e un tirso con alla sommità una pigna. Il 27 marzo, la statua argentea della Dea, adornata da una piccola pietra sacra incastonata sul capo, veniva condotta in processione e bagnata, insieme ai coltelli sacrificali, nell’Almo, un affluente del fiume Tevere. È evidente come il simbolismo sotteso alla liturgia del pino intendesse celebrare il risveglio della forza vitale della natura, riflettendo un’antichissima tradizione che ritroviamo in molte credenze religiose del passato. Per il suo fogliame sempreverde e l’incorruttibilità della sua resina che viene quindi a connotarsi come linfa vitale, il pino assurge a simbolo dell’immortalità. La sua sacralità è nota non soltanto presso i Greci ed i Romani – identificato come simbolo della permanenza vegetativa nella pigna che Dioniso tiene in mano e, come si è visto, con la potenza vitale riconosciutagli nel culto di Cibele, così come in quello di Pan –  ma anche presso i Celti e in tutto l’Estremo Oriente. Ovunque esso sta a rappresentare la rinascita della vita dopo la morte, la fecondità attraverso il sacrificio. In Sicilia, numerosi ritrovamenti testimoniano di un notevole culto alla Dea Cibele: dalle statue rinvenute nel santuario di Iasos a Gela e in quello di Malophoras a Selinunte, allo straordinario ciclo di aggettanti sculture rupestri, note con il nome di Santoni, nel sito di Akrai nei pressi dell’odierna Palazzolo Acreide, in cui la ritroviamo in ben dodici raffigurazioni; la Dea è presente anche in uno degli splendidi mosaici della Villa romana del Casale a Piazza Armerina, e secondo alcuni studiosi rivivrebbe anche nel sembiante di Mata, una delle gigantesche figure a cavallo di Messina, il cui capo è cinto da una corona turrita (si veda in proposito anche l’allegoria dell’Italia turrita che trae origine dalle raffigurazioni di Cibele nell’antica Roma). Si potrebbe dunque ipotizzare che il suo culto così diffuso nelle varie contrade siciliane, abbia in qualche modo influenzato anche il rituale della pigna a Palagonia nella sua rielaborazione in chiave cristiana.

Nei due riti presi in esame, tanto in quello in onore alla Dea Cibele, quanto in quello in onore a Santa Febronia, abbiamo infatti visto come esistono molte ed evidenti analogie: la presenza della pigna come elemento caratterizzante privilegiato, che in entrambi i casi viene a identificarsi con il corpo – quello di Attis nel culto di Cibele, il corpo mortale in quello di Santa Febronia – simbolo che a sua volta scandisce il rituale in due distinti momenti descriventi il passaggio dalla morte alla resurrezione – nel caso di Febronia assistiamo nella prima fase a un fremente raccoglimento, durante il quale vengono rievocati i supplizi patiti dalla Vergine nell’atroce martirio fino alla sua morte, cui segue l’esaltazione in cielo della Martire per mano degli angeli, salutata dall’euforia dei numerosi fedeli. Come Cibele, Febronia fa dunque la sua apparizione con la sua argentea statua per essere condotta in processione. Volendo cogliere ulteriormente lo spirito delle celebrazioni palagonesi (almeno fino a un recente passato) citiamo ancora un autore, si tratta stavolta di Luigi Capuana, che nel suo Di alcuni usi e credenze religiose della Sicilia ci racconta come La festa di Santa Febronia in Palagonia dà occasione a scene curiosissime. (…) La statua della santa viene recata con tripudio per un sentiero ripidissimo che domina l’abitato. In tale occasione un punto della roccia ritiensi come prodigioso per coloro che soffrono debolezza di reni; e i popolani corrono in folla a fregarvisi devotamente le spalle, fra lo sparo non interrotto di mortaretti, il rullare di enormi tamburini famosissimi nei dintorni, e le grida entusiastiche di tutto un popolo di curiosi.” Il già citato Pitrè ci dice ancora che “Sulla via campestre che conduce a li Costi, e quasi ad un chilometro distante dal paese, attaccata ad un sasso sta una lapide segnata con una croce e con parecchi forellini alla parte di sotto. Quando il simulacro è giunto all’altezza di detta lapide, la gente si ferma, e comincia a fregarsi le spalle sulla facciata della lapide col motto: “Santa Febronia, ‘nfurzatini i rini”; poi sputa entro i forellini col motto: “Vattinni a lu ‘nfernu, brutta bestia!” Infine bacia la croce. Giunti sull’altura e propriamente a li Costi, e dopo che un sacerdote ha biascicato alcune preci, si dà la stura alle bottiglie ed a vuotare le casseruole”. Altro momento importante delle celebrazioni febroniane è infatti rappresentato dal pellegrinaggio in contrada Coste, dove si trova l’eremo rupestre-bizantino in cui per primo abbiamo segni del culto verso la Santa a Palagonia. Per gli anziani del posto, è nelle grotte presenti in questa altura che Febronia (al pari di Cibele – Colei che vive nelle grotte) visse i suoi giorni, ignorando tale antica credenza le origini siriane della santa. In questo luogo anche Febronia ha la sua Fonte prodigiosa da cui sgorga acqua benedetta; anche Lei ha la sua sacra pietra su cui sfregarsi per ottenere la forza vitale (come si è visto sopra, nella invocazione per il rafforzamento dei reni e lo scacciamento degli spiriti maligni). Da questo luogo ameno e silenzioso che domina la pianura sottostante, come la Dea Selene (etimo: “la risplendente”), le reliquie della bella e splendente Febronia giunsero secondo antica tradizione a Palagonia su un carro trainato da buoi. Al pari di Selene e di Cibele, Febronia appare come una bella donna con il viso pallido, che indossa lunghe vesti fluide argentate. Proclamata Patrona della città, Febronia incarna tutti i poteri che attengono alla Grande Madre, e viene, al pari delle dee, invocata per domare le forze della natura, contro la minaccia dei terremoti, per ottenere il dono della pioggia, per infondere la sua protezione sui campi e sul raccolto; come la Dea Febris veniva in passato invocata contro la malaria che dilagava in queste contrade paludose; infine per la guarigione delle malattie, in particolare per quelle legate all’apparato genitale. Riguardo a quest’ultima associazione, vale la pena ricordare come le prime notizie agiografiche sulla santa le ritroviamo nei Miraculi Artemii (composti intorno al VII secolo) in cui viene menzionata come assistente di sant’Artemio; a Narni, in Umbria, nella chiesa di s. Michele Arcangelo (XI secolo) presso il castello di Schifanoia, i due santi sono affrescati l’uno accanto all’altra in qualità di guaritori delle malattie ai genitali; Febronia vi è raffigurata con le mani poggiate sul grembo gravido e, al pari di Artemide, dea della fertilità, a lei si rivolgevano le partorienti del luogo. In conclusione, come abbiamo già messo in luce in altre precedenti occasioni, il culto di Febronia, nonostante le varie trasformazioni intercorse nell’ampio arco temporale in cui si è sviluppato, attecchendo qua e là dall’Oriente all’Occidente, si offre sempre a nuovi piani di lettura, facendo della figura di questa santa del IV secolo una sorta di inesauribile caleidoscopio in cui varie personificazioni divine, antiche e nuove credenze si sovrappongono condensandosi in molteplici e interessanti aspetti cultuali.

Giuseppe Maggiore

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