IL MASSICCIO DELLE SERRE. Un viaggio immaginario attraverso la crosta terrestre

di Rosolino Cirrincione

L’interno della Terra è stato da sempre oggetto di grande curiosità per l’uomo che attraverso la sua immaginazione ha alimentato miti e leggende, creando scenari fantastici evocati in racconti spesso divenuti film. In questi, uomini impavidi si addentravano all’interno di grotte e camini per scendere nei meandri della Terra e dopo viaggi di numerosi giorni riemergevano sulla superficie attraverso i condotti vulcanici. È  questo, in sintesi, uno dei racconti di Jules Verne che, sebbene sia frutto della sua vulcanica inventiva, ricalca quello che era il pensiero dominante dell’epoca: un pianeta permeato da cavità, grotte, caverne, cunicoli dove acqua e magma scorrevano e dove la fantasia creava essere viventi sconosciuti e mostruosi. Ma le ipotesi sulla struttura interna della Terra nascono da tempi ben più lontani. I miti greci collocavano il regno dei morti dentro la Terra e l’Acheronte era il fiume attraverso il quale si accedeva agli inferi (fig. 1). Idea, questa, fortemente influenzata dalla presenza nel Mediterraneo Centrale di numerosi vulcani, le cui eruzioni, talora catastrofiche, evocavano violenza e morte. Un millennio dopo è Dante che colloca l’inferno all’interno della Terra, suddiviso in gironi e strutturato come un cono rovesciato con il vertice verso il centro della Terra, simbologia alimentata dall’idea che i magmi provenivano dal centro della Terra e che quindi qui doveva trovarsi l’Inferno con il suo fuoco eterno e le sue fiamme. Oggi si conosce com’è fatta la Terra al suo interno. Non perché ci siamo potuti entrare, ma perché siamo riusciti a dedurre la sua struttura da un insieme di informazioni non direttamente osservate. Lo strumento principale della scienza è l’osservazione diretta, ma osservare l’interno della Terra, ad eccezione di qualche chilometro superficiale, è attualmente impossibile. La perforazione più profonda, ad oggi realizzata, supera di poco i dodici chilometri: una minuzia, se consideriamo che il raggio terrestre è di 6378 chilometri. Abbiamo però una serie  di indizi e di dati, ottenuti grazie a prove indirette, che ci hanno consentito nel corso degli ultimi decenni di capire cosa c’è dentro il nostro pianeta. Sono i terremoti i nostri informatori più preziosi. Eventi tragici per antonomasia, sinonimi di cataclismi e distruzione, sono invece la fortuna per gli studiosi della Terra. Dopo un terremoto di grande magnitudo, infatti, la Terra continua a vibrare per un tempo più o meno lungo; le onde sismiche prodotte in occasione del sisma si propagano all’interno della Terra e, se captate da appositi ricevitori, come degli ottimi viaggiatori, trasportano una grande quantità di informazioni; queste opportunamente elaborate, disegnano la conformazione e la struttura interna del nostro pianeta. Abbiamo scoperto così che la Terra al suo interno non ha cavità, cunicoli e mari, è invece organizzata in involucri concentrici, separati tra di loro da superfici in corrispondenza delle quali si osservano delle brusche variazioni nelle velocità di propagazione delle onde sismiche. Per scoprire com’è fatta la Terra al suo interno, non ci resta, quindi, che seguire il viaggio di un’onda sismica. Lo strato più superficiale è la crosta, il cui spessore medio varia da circa otto chilometri al di sotto degli oceani fino a poco più di 40 chilometri in corrispondenza delle aree continentali. Alla base della crosta, le onde sismiche subiscono un rapido incremento della velocità; questa anomalia, individuata per la prima volta, nel 1909, dal geofisico Mohorovicic, marca il passaggio con l’involucro sottostante, il mantello. La superficie di transizione tra la crosta ed il mantello prende il nome del suo scopritore, o più brevemente Moho. Il nostro viaggio a cavallo dell’onda sismica prosegue sempre più in profondità fino a circa 2900 chilometri, dove una nuova anomalia nelle velocità segna il passaggio al nocciolo più interno del pianeta: il nucleo. Questo è caratterizzato da una regione più esterna allo stato liquido ed una porzione più interna allo stato solido. Crosta, mantello e nucleo sono, quindi,  i tre involucri principali del nostro pianeta. Si comprende allora come gli appena dodici chilometri di perforazione rappresentino ben poco, se paragonati ai 6378 del raggio terrestre. Le osservazioni dirette non coprono nemmeno lo spessore della crosta, involucro importantissimo per noi, in quanto interfaccia con l’idrosfera e l’atmosfera, luogo dove nasce e si sviluppa la vita. Per questo, conoscere com’è fatta la crosta terrestre è per noi di vitale importanza, essa è l’espressione superficiale di tutte le attività interne del nostro pianeta, attività che condizionano quotidianamente gli umori dell’idrosfera, dell’atmosfera e della biosfera. La sua formazione comincia circa 4 miliardi di anni fa, inizialmente come differenziazione del mantello e poi come risultato del continuo ed incessante dinamismo della tettonica delle placche. Oggi la crosta emerge per circa il 40% dell’intera superficie del nostro pianeta eppure conosciamo così poco di essa proprio per l’impossibilità di raggiungere le sue porzioni più profonde. Mi torna in mente un antico detto “se Maometto non va alla montagna, è la montagna che va da Maometto” Questo proverbio trova una particolare coincidenza nello studio della Terra. L’Uomo, non ha a disposizione i mezzi per investigare direttamente come è fatta la crosta terrestre nelle sue porzioni più profonde: è questa allora che, grazie ai movimenti tettonici in alcuni siti particolarmente fortunati, emerge e si mostra a noi in tutta la sua estensione. Uno di questi siti, eccezionali e particolarmente importanti dal punto di vista geologico, si trova nel cuore della Calabria, nel massiccio delle Serre. La particolarità delle rocce che costituiscono questo massiccio hanno da sempre destato l’interesse degli studiosi di geologia, per questa ragione da oltre un secolo alcune scuole hanno concentrato qui le loro ricerche. Limitate a Nord dalla stretta di Catanzaro, le Serre si estendono a meridione fino alla Piana di Gioia Tauro, dove un ipotetico e alquanto discusso allineamento geologico-strutturale, ubicato in corrispondenza della congiungente Palmi-Antonimina, le separa dal Massiccio dell’Aspromonte. Sono costituite in prevalenza da rocce cristalline metamorfiche e ignee plutoniche di età Paleozoica; solo lungo il litorale ionico affiorano rocce sedimentarie mesozoiche. Quando, alla fine del XIX secolo, gli studiosi iniziarono a redigere le prime carte geologiche della Calabria, si resero presto conto della particolarità di questo segmento di catena, completamente diverso dai limitrofi Appennini sia per la tipologia di rocce affioranti sia per l’età di queste. Numerosi sono stati i modelli geologici realizzati per spiegare la struttura e la conformazione del massiccio, ma nel 1980 Volker Schenk, un giovane studioso tedesco, ne propose uno originale e decisamente innovativo. Secondo lo studioso, le Serre rappresentano una intera sezione della crosta terrestre che durante l’ultima orogenesi si è ribaltata “coricandosi” sui  terreni sottostanti e adagiandosi orizzontalmente. Questa ipotesi è ormai accettata dalla comunità scientifica: il massiccio delle Serre rappresenta quindi uno dei rari casi al mondo in cui la crosta terrestre si mostra in tutta la sua interezza e continuità (fig. 2). Partendo da Stilo, piccolo centro della costa ionica calabrese, e viaggiando fino ai pressi di Pizzo Calabro, sulla costa tirrenica, è possibile, in un itinerario attraverso i grandiosi boschi delle Serre (fig. 3), immaginare di percorrere per intero lo spessore della crosta terrestre dalla superficie fino alla sua base, toccando addirittura  la discontinuità di Mohorovicic. Lo stesso viaggio che ci accingiamo a fare in uno splendido itinerario attraverso una Calabria segreta al di fuori delle usuali vie turistiche, un viaggio particolare, un “coast to coast” casalingo, molto meno famoso e senz’altro meno avventuroso del suo fratello maggiore americano, ma, nel suo piccolo, insolito e prezioso se visto non solo come percorso turistico ma anche con un pizzico di curiosità scientifica (fig. 4). Una sezione tipo di crosta terrestre è costituita da una sequenza sedimentaria spessa qualche chilometro, al di sotto della quale inizia il basamento cristallino. Quest’ultimo comprende, inizialmente, rocce metamorfiche di basso grado che divengono di medio grado nei livelli più profondi. A circa 20 chilometri di profondità, inizia la crosta intermedia, il regno delle intrusioni magmatiche, la regione cioè dove si formano le masse granitoidi che costituiscono i grandi batoliti. Tra i 25 ed i 30 chilometri inizia la crosta inferiore, dominata interamente dalle rocce metamorfiche granulitiche fino alla base, dove gli ammassi gabbrici segnano la transizione con il mantello. Le rocce sedimentarie si formano per accumulo di sedimenti, generalmente in ambiente marino; queste rappresentano le rocce più superficiali della crosta terrestre a contatto con l’idrosfera e l’atmosfera. Sono le rocce sulle quali l’uomo sviluppa tutte le attività fondamentali della sua vita come l’agricoltura e l’allevamento. Nell’intorno dell’abitato di Stilo, affiorano potenti successioni sedimentarie carbonatiche la cui età varia dal Giurassico medio (circa 160 milioni di anni fa) fino al Cretaceo superiore (70 milioni di anni fa). Queste si sono formate lungo i margini meridionali del subcontinente Iberia, propaggine del più grande continente europeo, e bordavano un oceano chiamato Tetide. Oggi di questo oceano rimangono solo poche tracce, qualche frammento di fondo oceanico rimasto intrappolato durante l’imponente collisione tra l’Europa e l’Africa. Le rocce carbonatiche sulle quali è arroccato il piccolo abitato di Stilo (fig. 5) rappresentano quindi la superficie della crosta terrestre di 160 milioni di anni fa, dove gli organismi viventi di allora, buona parte dei quali oggi estinti, svolgevano le loro abituali attività quotidiane. Tali rocce, oggi adagiate come una piccola dorsale allungata da Nord-Est verso Sud-ovest, costituiscono i monti Stella, Consolino, Mammicomito e Mutolo. Per depositarsi le rocce sedimentarie hanno bisogno di un pavimento; questo basamento normalmente si trova a pochi chilometri di profondità al di sotto della superficie terrestre. Procedendo allora di qualche chilometro verso l’interno del massiccio delle Serre dovremmo trovare le tracce di questo basamento. Nei pressi del piccolo centro di Bivongi, si ritrovano i primi affioramenti di rocce metamorfiche; antiche di oltre 300 milioni di anni e piegate dagli enormi stress tettonici (fig. 6), un tempo anch’esse erano rocce sedimentarie, trasformate in seguito, in scisti dal calore e dalla pressione della Terra. Originariamente si trovavano a circa 7-8 chilometri al di sotto della superficie e, considerando che la temperatura all’interno della Terra aumenta di circa 30 gradi al chilometro, le loro condizioni di equilibrio sono stimabili attorno ai 200-250 gradi. Queste temperature non eccessivamente alte hanno consentito di preservare, all’interno di queste rocce, tracce di antiche forme di vita come i conodonti, i vermi con i denti, considerati per molto tempo un mistero della paleontologia, perché di questi organismi si ritrovavano solo resti di apparati boccali e mai fossili del corpo intero. Solo qualche hanno fa, un ritrovamento eccezionale, in Scozia, ha permesso di chiarire tanti punti oscuri sulla morfologia e sulle abitudini di vita di questi antichi esseri viventi. Le bellezze naturali e monumentali dell’area di Stilo-Bivongi meritano un capitolo a parte: oltre alla “Cattolica” di Stilo e al Monastero Ortodosso di San Giovanni Theristis di Bivongi, basti ricordare che il “salto di Marmarico” con i suoi 114 metri, è la cascata più alta dell’Appennino Meridionale ed ha ottenuto, nel 2011, il prestigioso riconoscimento di “Meraviglia d’Italia”. Procedendo il nostro percorso all’interno della crosta terrestre, la temperatura aumenta, le tracce fossili svaniscono e le rocce assumono un aspetto sempre più cristallino dato che nuovi minerali crescono sostituendo i vecchi non più stabili nelle condizioni di temperatura e pressione instauratesi con la profondità. Siamo nei dintorni dell’abitato di Pazzano, dove affiorano rocce originariamente poste tra i 10 ed i 15 chilometri di profondità. Il loro aspetto argenteo e luccicante è dato dall’abbondante presenza di muscovite, una mica ricca in alluminio e potassio. Ma è la comparsa dell’andalusite, un minerale tipico di alta temperatura, e le sue modalità di crescita che ci insospettiscono inducendoci a pensare che stiamo per transitare in quella che era la crosta intermedia, il regno dei magmi granitici. Basta inoltrarsi per qualche chilometro in direzione del paese di Nardodipace per incontrare i primi affioramenti di rocce granitiche. Queste rappresentano magmi solidificatisi all’interno della crosta terrestre circa 300 milioni di anni fa ad una profondità compresa tra 20 e 30 chilometri. Il lento raffreddamento, risultato della scarsa conducibilità termica delle rocce, ha permesso la formazione di minerali grandi fino al centimetro: il quarzo, il feldspato potassico, il plagioclasio e la biotite conferiscono a queste rocce il tipico aspetto sale e pepe. L’insieme di queste rocce magmatiche, rappresenta quello che nella letteratura scientifica è conosciuto come il “batolite delle Serre”. La solidificazione del magma granitico deve essere stata abbastanza turbolenta; la presenza di macchie scure ovoidali, agli esperti note come “Mafic microgranular enclaves” suggerisce un afflusso irregolare ma relativamente continuo nel tempo di nuovo magma all’interno della camera, diverso per  composizione, per densità e per viscosità, tale da non consentire il mescolamento completo con il liquido già residente (Fig. 7). Nelle vicinanze di Nardodipace, troneggiano torrioni di granito come fossero pilastri di una Stonehenge calabrese (Fig. 8). Alcuni storici hanno interpretato questi megaliti come i resti di edifici per il culto di popolazioni che nel passato avevano colonizzato la Calabria centrale, altri li attribuiscono ai Lestrigoni, popolo di giganti citati da Omero nell’Odissea, distruttori della flotta di Ulisse. I “petri ‘ncastunati” come li chiamano gli abitanti locali, potrebbero rappresentare semplicemente forme di erosione, peraltro molto tipiche in rocce di questa composizione, indotte dagli agenti atmosferici che accentuano la loro azione disgregante in corrispondenza di originarie discontinuità nella massa rocciosa per poi proseguire verso  l’interno. Non mi dilungo in questa spiegazione scientifica, mi piace lasciare questo luogo avvolto nel mistero, e mi affascina il pensiero che questi imponenti monoliti possano essere stati i luoghi dei giganti Lestrigoni. Questa è anche la zona della Ferdinandea, un grande territorio vasto oltre 3500 ettari il cui nome è legato a Ferdinando II. Il sovrano, particolarmente legato a questa terra, costruì qui una residenza estiva che utilizzava per le sue battute di caccia. L’intera area, che comprende i siti di Ferdinandea e i centri abitati di Pazzano, Nardodipace e Mongiana, era il cuore dell’industria siderurgica dell’Italia meridionale. Le famose Ferriere Borboniche, complessi industriali che comprendevano ferriere, fonderie e villaggi minerari, rappresentavano una realtà industriale tra le più moderne ed efficienti dell’Europa Occidentale. Un’industria all’avanguardia anche nel rispetto dell’ambiente, è noto infatti il decreto salvaboschi del 1773 che stabiliva la nascita delle nuove Ferriere di Mongiana, non più come strutture industriali itineranti ma fisse e stabili, per evitare o almeno ridurre i danni al territorio legati al disboscamento. Se, immersi nel silenzio di questi boschi così fitti che la luce è penombra, ci si sofferma anche solo per un momento a pensare, ad immaginare questi luoghi nella prima metà dell’ottocento, centro dell’innovazione tecnologica e industriale, fulcro del benessere e dell’economia e centro della vita sociale e culturale di una intera regione, si viene sopraffatti da una profonda amarezza mista ad un senso di malinconia e di abbandono che è tipico di chi viaggia in Calabria. Una malinconia che aumenta se si considera che a questo fermento ed effervescenza culturale fa eco, oggi, una Calabria emarginata e terra d’emigrazione.  Questa bella favola calabrese termina dopo l’Unità d’Italia; il 25 giugno 1874, l’avviso di vendita dell’ultimo comprensorio siderurgico borbonico, la Ferriera di Mongiana, segna la fine di un gioiello industriale tra i più moderni e all’avanguardia per l’epoca, perfetto nei prodotti e nell’impatto ambientale. Il resto della storia è noto a tutti. Riprendiamo il nostro viaggio dentro la crosta terrestre, lasciamoci alle spalle Nardodipace e proseguiamo verso nord-ovest, addentrandoci sempre più in profondità in quella che era la crosta terrestre di 300 milioni di anni fa. Circondato da faggete e abetine, svetta il Monte Pietra del Caricatore che con i suoi 1414 m.s.l.m. è il secondo rilievo più alto delle Serre (fig. 9). Siamo nel cuore di un antica camera magmatica dove il magma granitico risiedeva e solidificava trecento milioni di anni fa. Attorno al monte, il cui nome è legato alle vicende della Grande Guerra, si ritrovano blocchi di granito sparsi e abbandonati, tagliati a misura per la costruzione della Certosa di Serra San Bruno.  Il questa località, famosa per la Certosa dei Santi Stefano e Bruno, la presenza di rocce granitoidi più ricche in minerali mafici (minerali ferro-magnesiaci) ci indica che stiamo per raggiungere la base della camera magmatica. Pochi chilometri più a nord-ovest, infatti, nei pressi dell’abitato di Pizzoni, entriamo nella porzione più profonda della sezione crostale. Sono ormai le rocce metamorfiche che ci accompagneranno fino al termine del nostro viaggio. Queste costituivano il pavimento della camera magmatica dove si era intruso il magma granitico; si conosce l’età del loro metamorfismo, ma non si conosce cosa erano prima di divenire metamorfiche, forse sedimenti di qualche oceano primordiale di cui ormai si sono completamente perse le tracce. Sappiamo solo da qualche minerale relitto preservato al loro interno, che 900 milioni di anni fa erano presenti sotto altra forma e composizione. Sono gneiss granulitici migmatitici, rocce divenute metamorfiche a circa 30-35 chilometri di profondità e ad una temperatura comprese tra 800° e 900°C (fig. 10). Mostrano un’alternanza di bande chiare e scure, segno inequivocabile di una parziale fusione avvenuta quando la sezione crostale era ancora in posizione verticale. Le porzioni chiare rappresentano le vene di magma che, a suo tempo, iniziava a concentrarsi e a mobilizzarsi per intraprendere, quando le condizioni di densità e viscosità lo avrebbero permesso, il viaggio verso i livelli più superficiali della crosta; le porzioni scure rappresentano i residui della suddetta fusione parziale. La roccia nel suo complesso si presenta come una intima commistione delle due porzioni, magmatiche e metamorfiche, segnando, con questa peculiarità, l’ormai prossima base della crosta terrestre. Siamo, infatti, in vista della Costa Tirrenica, nelle vicinanze della Stretta di Catanzaro e secondo le nostre previsioni, da un momento all’altro dovremmo incontrare la Moho, la superficie che segna la fine della crosta e marca il passaggio con il sottostante mantello. Poco a Nord di Filadelfia, risaliamo controcorrente il corso del torrente Turrino, grazie ad un’agevole carrareccia, il versante destro è caratterizzato da ripidi e scoscesi pendii di rocce talmente scure da apparire nere. Sono i metagabbri, rocce prodotte dalla solidificazione di un magma basico, originato nel mantello e solidificatosi, durante l’ascesa, proprio in corrispondenza della Moho (fig. 11). Ecco dunque, la base della crosta terrestre, la nostra meta e quindi la fine del nostro viaggio. È emozionante immaginare questo scenario: circa 300 milioni di anni fa, a quaranta chilometri di profondità, un magma basico solidificava ad oltre 1000 gradi e pavimentava l’allora crosta terrestre, la stessa che oggi osserviamo per intero distesa e adagiata attraverso il percorso appena compiuto. Ma le sorprese non sono finite: tra i livelli di metagabbri, luccica qualcosa. Un’altra roccia, diversa da tutte le precedenti. Tenuta in mano, ci accorgiamo subito del suo peso anomalo indice di una elevata densità; un’osservazione più attenta ci svela la sua vera natura: si tratta di una peridotite, una roccia ultramafica costituita da olivina e pirosseni, molto rara perché roccia di mantello (fig. 12). Al termine di questo viaggio, le Serre ci regalano, dunque, un’ultima rara e singolare sorpresa: uno sguardo al mantello. La presenza di questa roccia implica, infatti, che la crosta terrestre, durante il ribaltamento, ha strappato un frammento di mantello trascinandolo in viaggio con sé fino a raggiungere la superficie, regalandogli così qualche milione di anni di luce, prima che la dinamica terrestre riavvii il suo corso.

Rosolino Cirrincione

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