Per essere greci non dovremmo avere abiti,
per essere medievali non dovremmo avere corpo,
per essere moderni non dovremmo avere anima.
Oscar Wilde
di Massimiliano Sardina
L’inesorabile legge ciclica del Decline and Fall è ancora più vera se riferita alla Grecia, la grande Mater occidentale. Tra gli ineguagliati splendori dell’età ellenistica e l’attuale disastrosa situazione politica e socio-economica deve essersi innestato – non sappiamo bene come, quando né perché – un ingranaggio difettoso che, alla stregua di un seme malsano, ha infestato i connotati della cultura più alta e nobile che la storia dell’uomo abbia mai incarnato. Lo sperpero di un’eredità così unica e preziosa la dice lunga sulla fantomatica evoluzione che si vuol far coincidere a tutti i costi con il cosiddetto progresso. Si va avanti, sì, ma procedendo in retromarcia. Così, la ieratica postura policletea (appannaggio di un’âge d’or lontana come solo sa esserlo la notte dei tempi) lascia il posto alla contorsione e a un malcelato disagio. L’artista, alias l’eterno sopravvissuto, soppesa la sua posizione all’interno di nuovi equilibri, si ritaglia uno spazio o vi si sovrappone, si imbriglia alle redini del mercato per entrare nel giro, per non perdere la corsa, per garantirsi quanto meno l’illusione di una finestra di dialogo con il mondo che lo circonda. La Grecia a tal riguardo, lo sottolineiamo, almeno da un punto di vista squisitamente simbolico, costituisce un territorio d’indagine e di riflessione assolutamente privilegiato. Passato e presente sui due piatti della bilancia ci danno la misura (precisa al grammo).
Il frutto di oggi trattiene solo un retrogusto residuo dell’albero e della radice di ieri. L’operazione di Andreas Nicolaou, uno degli artisti contemporanei greci di maggiore respiro internazionale, va letta in primo luogo nei termini di una riformulazione della classicità, ovvero la necessità di far sopravvivere la tradizione nell’endoscheletro del corpus artistico contemporaneo. La presenza del corpo come materia viva e sofferente informa di sé tutta l’opera di Andreas Nicolaou. Dai primi elaborati a quelli più recenti è ravvisabile il comun denominatore della corporeità quale condizione ineliminabile e pervasiva. Scriveva Pasolini: “È il corpo l’origine di tutto, e bisogna farlo sparire”. Il corpo greco contemporaneo di Nicolaou non rimarca la solennità di un Prassitele né si contenta di riproporre certe tonicità fidiane, abbandona altresì la staticità eretta e imperturbabile a favore di una divaricazione più problematica e di una distensione solo apparente. Messi a nudo, i soggetti si cimentano in posture contorte, a tratti inverosimili, prigionieri di uno stare in posa e di uno stare al mondo. Esemplari a tal riguardo sono le opere Deposizione, Mezzaluna I e Mezzaluna II (2002), nelle quali convergono tutte le costanti contenutistico-espressive dell’artista; protagonista dei dipinti qui citati è un modello (un corpo) in mise adamitica che si guadagna il centro della scena sorretto dal precario equilibrio di tre sedie pieghevoli. All’indolente staticità delle membra fa da contraltare, come denunciano i titoli, la sensazione di un fluttuante dinamismo.
Quella di Andreas Nicolaou è una pittura colta, non esente da rimandi e citazioni, peraltro facilmente individuabili, che spaziano dalle più dichiarate atmosfere simboliste (primi fra tutti Odilon Redon e Gustave Moreau) all’arcano immaginario di un Johann H. Füssli, di un William Blake e di un Arnold Böcklin. L’allusione a Caravaggio, e più in generale alla pittura del primo Seicento, è testimoniata dall’adozione dei fondali oscuri e impenetrabili dai quali emergono le figure. In altre opere l’ambientazione è l’atelier stesso dell’artista, ed è qui che i corpi rivendicano la loro natura di modelli e quindi di simboli. Slancio elettivo e caducità sembrano ordire una trama comune e sovrapporsi irrimediabilmente l’uno sull’altra. Ne consegue che, per l’artista, il corpo è sì un tramite ma anche un limite. Questa dualità si traduce in una pittura fatta di carne e di buio, tesa ad indagare l’enigma umano nei più intimi recessi. Sono propri della poetica della contraddizione anche gli accostamenti tematici tra sacro (si vedano titolazioni quali Deposizione o Ascensione) e profano (Eros, Narciso…). Dal passato Nicolaou preleva non solo determinate atmosfere pittoriche, ma anche vere e proprie iconografie, siano esse cristologiche o deliberatamente ispirate al mito greco. Lungi dal risolversi in mero anacronismo, la sua opera si pone in fertile dialettica con le più attuali esperienze del figurativo contemporaneo. Coadiuvata da una pennellata materica, la sua impronta stilistica si distingue per coerenza ed omogeneità nei vari elaborati, senza inficiarne la riconoscibilità. Particolarmente significativi si rivelano gli interventi a spatola e le raschiature operate nel cuore stesso del colore, ed in particolare sulle epidermidi, dove i segni incisi si ramificano alla stregua di misteriosi ideogrammi. Nel dialogo chiaroscurale tra bianchi e neri fanno spesso capolino tracce striate di un rosso acceso, quasi l’opera trasudasse sangue. Emblematico in tal senso è il Narcissus insanguinato, una delle pagine più riuscite di Nicolaou, forse paradigma del mito attualizzato e umanizzato. Libere di muoversi nello spazio o di cristallizzarsi in un’ambigua ieraticità, le figure danno vita ad un teatro di gesti e di abbandoni. Figure scomode, sembrano intimare allo spettatore una qualche reazione emotiva che vada al di là della semplice osservazione o ammirazione. L’onnipresenza e la persistenza del corpo però non sono tratteggiate con impeto aggressivo ma stemperate in una compiaciuta rassegnazione. In bilico tra tensione e catarsi si dispiega così una visione pittorica complessa e problematica, mai adagiata nei vicoli di una ripetitività seriale.
Nei dipinti si susseguono innumerevoli varianti gestuali (braccia spalancate, schiene inarcate…) tutte indotte da una potente spinta interna che le colloca nello spazio circonfondendole in esso. Sospesi nell’aria o riversi su ordinari e casuali sostegni quali sedie, letti o poltrone, i corpi intrattengono una lacerante interazione con la propria solitudine. Spogliati del ruolo sociale e quotidiano, essi palesano con la loro vulnerabile nudità la condizione transitoria e marcescibile dell’essere al mondo. Questi nuovi corpi greci si mostrano in perfetta aderenza alla contemporaneità che li ha partoriti; la precarietà di tutto un sistema sociale (che di riflesso diventa sistema dell’arte) sembra spalmarsi su queste pelli esposte e su queste articolazioni tese. Sussiste forse un’altra nuova classicità possibile? Nicolaou descrive e ci restituisce quest’impotenza attraverso la vulnerabilità del corpo, un corpo che non cessa di essere bello e attraente, un corpo che ancora trasuda desiderio, un corpo che attende, seduce e accoglie. La nuova classicità greca, il neo-ellenismo, deve necessariamente passare attraverso una disarticolazione: alla verticale magnificenza dell’idolo si sostituisce una sognante orizzontalità, una veglia leggera, il riposo rigenerante che precede l’azione.
Massimiliano Sardina
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