di Giuseppe Maggiore
Naturalmente, come sono il padrone degli stabili, delle macchine da scrivere,
delle calcolatrici meccaniche, delle macchine meccanografiche e di tutto il resto,
così sono anche padrone dei miei dipendenti, che debbo pagare,
più di quanto sia necessario al loro sostentamento.
(Il Padrone, Goffredo Parise)
Lavorare nuoce gravemente alla salute. Di lavoro si può anche morire (e non solo per il ben noto fenomeno delle “morti bianche”). Se per la difficoltà di riuscire a trovarlo, molte persone vivono al giorno d’oggi una condizione di estrema frustrazione, sono molti i casi in cui il lavoro stesso si trasforma in un incubo per chi ce l’ha. C’è una moltitudine di persone per la quale il posto in cui si reca per svolgere la propria professione rappresenta un vero e proprio luogo di tortura. Tortura psicologica, morale, fisica. Persone che il più delle volte quel posto di lavoro se l’è sudato, lo ha conquistato perché capace, senza sconti o raccomandazioni. Persone disposte ancora a credere nella meritocrazia e che nell’ambiente di lavoro, come in ogni contesto sociale, vigano le stesse regole civili della buona educazione e del rispetto dell’altro. Il diligente lavoratore sa, dal canto suo, che questo si traduce anche nel rispetto per le necessarie formazioni gerarchiche, per i ruoli che ciascuno ha all’interno dell’organizzazione lavorativa di cui fa parte. Sa bene anche che un lavoro, e di conseguenza chi ne è il datore, merita da parte sua il dovuto rispetto, l’assoluta lealtà, e la piena dedizione nelle mansioni cui è stato affidato. Si afferma che il lavoro nobilita l’uomo, che esso costituisca per l’individuo uno dei requisiti fondamentali alla sua piena realizzazione personale; si parla degli ambienti di lavoro come luoghi in cui debba essere assolutamente riconosciuta e tutelata la dignità della persona, ed anzi, debbano essere poste in essere le condizioni per favorirne la crescita professionale. Non è un caso se tutte le nazioni democratiche recano la voce “lavoro” nelle proprie Carte costituzionali, come un diritto inalienabile dei propri cittadini. Non è un caso se per esso si sono sostenute tante lotte, si sono spesi effluvi di parole e formulazioni di principio, sono state elaborate leggi specifiche a tutela del lavoratore, e nate tante organizzazioni, movimenti ed enti che se ne fanno garanti. Sulla carta è sempre tutto a posto, legale, giusto. Ma nella società umana, si sa, vigono spesso delle regole, non scritte, non contemplate in nessun contratto di lavoro che si rispetti, che fanno rassomigliare il consorzio umano più ad una giungla, ove vigono le regole del più forte, del “morte tua vita mia”, della sopraffazione, del sovrasfruttamento, dell’arrivismo a tutti i costi. Ed è in questo ambito del non scritto che prospera e trova il suo habitat ideale un certo tipo di “uomo della giungla”; è qui che egli si trova pienamente a proprio agio, avendo raggiunto un dato potere e provando gusto nell’usarlo, anche al di là del lecito. Costui costruisce la sua vita e tutto quanto faccia parte del suo mondo attorno al lavoro nella cui sede può sistematicamente affinare il gusto sadico di sovrastare gli altri e, naturalmente, di colpire il più debole. Il suo è un caso ben noto alle scienze umanistiche e sociali, specie alla psicoanalisi (Freud ne ha ispezionato ogni retaggio infantile, ogni frustrazione sessuale celata tra le pieghe della sua psiche e del suo letto). Un tipo umano piuttosto diffuso ancora oggi, nella civilissima società occidentalizzata. Un soggetto che tende spesso a legittimare certi comportamenti come espressione di una sua legittima ambizione che trova la più eloquente sintesi nella massima: “il fine giustifica i mezzi”. Grazie a figure come queste il lavoro (e con esso la dignità) può arrivare a costituire, per il malcapitato di turno, non già un diritto, ma una conquista prima da ottenere e poi da difendere con unghie e artigli ben affilati. Nella penuria di lavoro che c’è in giro, del resto, ti devi innanzitutto ritenere già fortunato di poter lavorare. E pazienza se poi il posto di lavoro spesso si traduce per te in una sorta di prigione, con orari estenuanti che ti tengono in ostaggio precludendoti di condurre una vita normale fatta anche di molteplici altri interessi; pazienza se vi vengono dettate delle condizioni a dir poco anomale e ingiuste cui devi sottostare. Se vuoi lavorare questa è la realtà. I tuoi principi lasciali a casa come sai far già con i tuoi problemi. Lo sporco sta dentro. Anche in azienda. In siffatti contesti si riscontra spesse volte una distonia. Magari si investono ingenti capitali in campagne pubblicitarie atte a trasmettere all’esterno un’immagine edulcorata, associando al proprio marchio un sistema di valori etici, positività e tante belle energie. Specchietti per le allodole dove ammiccano insieme al prodotto volti rassicuranti e sorridenti, tutto ben studiato a seconda del target individuato. Standoci dentro, possiamo invece venire a contatto con una realtà ben diversa; qui il registro cambia e si scopre uno scenario molto meno roseo. Potremmo scoprire infatti che all’interno della virtuosa azienda non tutto profuma di sani principi, come nel caso di una politica del personale carente e valori comuni pressoché assenti o insufficienti. Valori, già. Come quello tanto conclamato della Persona. Valori che in certi casi subiscono un’eccezione quando, nel caso di quello appunto relativo alla persona, questa venga vista solo ed esclusivamente come un dipendente, uno strumento per il raggiungimento di determinati profitti (alias obiettivi aziendali). Il dipendente viene considerato alla stregua di un oggetto, si riduce ad essere un numero, un pezzo intercambiabile secondo la logica dell’utile (ma non indispensabile). Stando così le cose, a un certo punto e per svariate ragioni, un lavoratore subordinato non viene più considerato un valore aziendale, un prezioso collaboratore, un tassello importante della macchina organizzativa e produttiva, bensì, molto kafkianamente, un parassita, uno scarafaggio che si può calpestare e mandare via in qualunque momento. Avanti un altro. Di te e di quanto hai dato fino a quel momento alla “premiata ditta” non importa un fico secco. Sei un uomo obsoleto, come ben descritto nell’omonimo episodio della serie-cult TV “Ai confini della realtà” del 1961, di Rod Serling (regia di Elliot Silverstein). Ma non si arriva subito alla tua eliminazione. Quando hai dalla tua parte la legge che ti tutela, esistono altre vie percorribili per liberarsi di te. Così come non è sempre detto che lo scopo sia quello di cacciarti via. Sta di fatto che ti ritrovi ad operare all’interno di un ambiente di lavoro caratterizzato da conflittualità, tensioni, situazioni di disagio. Esattamente l’opposto di ciò che favorisca un tuo miglior rendimento nel lavoro. Magari hai a che fare con uno di quei titolari o superiori di grado che in preda a una sorta di delirio di onnipotenza arrivano a considerare i propri subordinati come fossero una loro proprietà, di cui poter disporre indiscriminatamente. In virtù di ciò, questo genere di “superiori” pretende di potersi concedere smisurate libertà sugli altri, fare sempre buono e cattivo tempo, dettare gli umori e le regole del gioco a seconda della bontà o meno delle proprie convinzioni. Facile immaginare come una tale forma mentis possa entrare in collisione d’urto con le specifiche individualità e le diverse sensibilità che popolano l’ambiente di lavoro. L’ideale per un siffatto soggetto a capo di un’organizzazione, evidentemente affetto da una forma accentuata di insano narcisismo, sarebbe quello di avere a che fare con degli automi piuttosto che con delle persone dotate di una propria intelligenza. Tutto va bene, si fa per dire, fin quando tu taci e subisci soprusi e angherie, non osando alzare la testa e ribellarti. In caso contrario le cose vanno per il peggio. Così accade che il tal titolare o il tal collega gerarchicamente superiore (magari solo di una spanna) spesso si trasformi nel tuo aguzzino, colui il quale ti rende praticamente impossibile svolgere con la necessaria serenità il tuo compito, le tue mansioni, arrivando a raggiungere livelli di una brutalità sconcertante. Le dinamiche in cui tutto ciò accade sono tra le più subdole e talvolta talmente sottili da non rivelarsi subito per quello che sono effettivamente. Tutta una serie di atti, provvedimenti, comportamenti e atteggiamenti volti a umiliarti, denigrarti, metterti in cattiva luce, mortificarti, sfinirti. Tu sei la vittima designata. Se la legge, quella scritta, mi obbliga a tenerti, faccio in modo che sia tu ad andartene con i tuoi stessi piedi. Tutto questo ha un nome: Mobbing. Un fenomeno spesso sottovalutato o non riconosciuto come un vero e proprio problema, ma molto più frequente di quanto si pensi e dagli esiti davvero devastanti per chi ne è vittima.
QUANDO SI PUO’ PARLARE DI MOBBING
Si può parlare di mobbing quando un datore di lavoro, un collega, o una figura gerarchicamente superiore, mette in atto tutta una serie di comportamenti che di fatto si traducono in un’attività persecutoria nei confronti del lavoratore. Questa pratica viene spesso condotta con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, senza dover ricorrere al licenziamento (in mancanza di giusta causa), ma anche come semplice forma di ritorsione a seguito di comportamenti non condivisi (contestazione di un abuso di potere o comportamento scorretto, denuncia ai superiori o all’esterno di irregolarità sul posto di lavoro); per il rifiuto della vittima di sottostare a proposte o richieste di natura illegale o immorale (avances sessuali, operazioni contrarie a principi deontologici o etici, rifiuto a svolgere compiti che non gli competono). Alla base dei molteplici conflitti potrebbero esserci fattori di varia natura, talvolta anche piuttosto banali: si va dalle semplici antipatie personali alle incompatibilità caratteriali, da insane forme di competizione in cui si innescano meccanismi di invidie e gelosie tra colleghi a fattori di mancata omologazione al gruppo di lavoro in cui il nuovo arrivato viene a trovarsi, fino a giungere a cause derivanti da mutate esigenze aziendali (ridimensionamento del personale, riorganizzazione del lavoro, nuovi obiettivi da raggiungere o mutate condizioni concorrenziali da fronteggiare). L’insorgere o il rafforzarsi di episodi conflittuali può essere favorito da un ambiente di lavoro insano permeato da una cultura organizzativa che presta scarsa attenzione al problema, arrivando a sottovalutarlo o a ignorarlo deliberatamente. Altri fattori, non meno importanti sono l’insicurezza del posto di lavoro; la scarsa qualità del rapporto tra il personale, e tra questo e la direzione; un basso livello di soddisfazione nei confronti del proprio ruolo professionale o mansione; le richieste sempre più alte che vengono avanzate al lavoratore; un alto livello di stress legato all’attività lavorativa; conflitti di ruolo. Non rari sono i casi in cui a scatenare tali reazioni sono protratti periodi di assenza dal lavoro dovuti a una lunga malattia o una maternità. La casistica può rivelare inoltre all’origine anche ragioni di discriminazione in base al sesso, al credo politico o religioso, tendenze xenofobe o omofobe. I comportamenti da mobbing possono consistere nel vessare in modo sistematico il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica. Ad esempio: sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, dequalificazione delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie, ricevere telefonate, compiti insignificanti, dequalificanti o con scarsa autonomia decisionale) così da svilire e rendere umiliante la prosecuzione del lavoro; rimproveri e richiami, espressi in privato ed in pubblico anche per futili motivi, al fine di mortificarlo e umiliarlo; dotare il lavoratore di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti malsani o scarsamente illuminati; distorcere il flusso di comunicazione (fornendo informazioni incomplete o inesatte al fine di indurre il lavoratore a commettere degli errori), privarlo di strumenti necessari per l’espletamento della sua attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a Internet); continue visite fiscali in caso malattia. Altri elementi che fanno configurare il mobbing, possono essere il ricorso all’assunzione di doppi sensi, allusioni offensive o sottigliezze verbali quando si è in presenza del dipendente o collega oggetto di mobbing, cambio di tono nel parlare quando ci si rivolge alla vittima, provocargli immani situazioni di stress (dando ad esempio pratiche da eseguire in fretta l’ultimo giorno utile), sottoporlo ad estenuanti turni di lavoro o a frequenti trasferte. In poche parole il mobbing è un sistematico processo di cancellazione del lavoratore condotto con la progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa. Le estreme conseguenze possono essere il licenziamento, la mobilità, l’invalidità psicologica o il prepensionamento, costituendo quindi un serio problema per tutto lo stato sociale, in virtù degli oneri molto gravosi a carico degli enti previdenziali e socio-assistenziali.
CHI SONO I SOGGETTI COINVOLTI
Il mobbing può coinvolgere a vario titolo più attori all’interno di una struttura aziendale. I principali protagonisti sono il mobber e il mobbizzato. Il mobber (parte attiva): costui può nella maggior parte dei casi essere un soggetto segnato da profonde frustrazioni affettive o sessuali e da conflitti interiori che si ripercuotono anche nella sua sfera relazionale. Un’esistenza, la sua, il più delle volte carente sul piano affettivo-relazionale, priva di interessi al di fuori di quelli orientati al profitto o al raggiungimento di un determinato status sociale, povera di solidi e sani valori, e che lo porta a concentrare tutti i suoi sforzi e le sue energie sul lavoro. Affetto anche da un accentuato disturbo narcisistico che si esplica nel suo smisurato egocentrismo, nel suo essere in preda a manie di successo e potere, costantemente alla ricerca di rispetto, approvazione e ammirazione da parte degli altri, trasforma la sua vita in un perenne campo di battaglia ove vive in un clima di costante competizione con gli altri. Dietro l’atteggiamento borioso, vincente, forte, pieno di sé, di colui il quale ostenta sicurezza e autorità, può celarsi una personalità fragile, contrassegnata da insicurezze e paure, e possono nascondersi motivazioni psicopatologiche profonde. Mancando in sé stesso di piena consapevolezza e autocritica, è mosso da frequenti sentimenti di invidia verso tutto ciò che negli altri mette in risalto le sue deficienze. A motivo di ciò vessa i propri sottoposti o colleghi. Il suo profilo psicologico può essere quindi facilmente riassunto con le seguenti definizioni: frustrato: tanto da scaricare i suoi problemi sugli altri; istigatore: amante delle cattiverie gratuite; megalomane: affetto da una visione distorta della realtà; narcisista perverso: scarica sugli altri il proprio dolore e le contraddizioni che vive internamente e che rifiuta di considerare. Il ruolo di mobber può essere assunto da una o più figure (il titolare, il responsabile del personale, il responsabile di una specifica unità lavorativa, uno o più colleghi).
Il mobbizzato (parte passiva): anche il ruolo di mobbizzato può coinvolgere uno o più soggetti all’interno dell’organizzazione, e colpire una qualunque delle figure professionali, talvolta anche di livello superiore che in un dato momento si intende declassare o eliminare. Infatti, secondo la logica del pesce grande che mangia il pesce più piccolo, anche un mobber potrebbe a sua volta essere mobbizzato da un soggetto gerarchicamente superiore a lui, oppure, secondo l’altra logica della ruota che gira, potrebbe un giorno ritrovarsi egli stesso ad essere fatto oggetto di azioni mobbizzanti. La condizione psicologica di una vittima mobbizzata a lungo andare risente dei ripetuti attacchi di cui è fatto oggetto, manifestando nel tempo disturbi sia al livello psicosomatico, sia al livello emozionale e comportamentale. Alcuni dei più comuni sintomi sono: disaffezione dal proprio lavoro, stati d’ansia, insonnia, cefalea, tachicardia, dipendenza da farmaci, senso di disagio nel posto di lavoro, insicurezza, vuoti di memoria, perdita dell’autostima etc.. Tali disturbi possono protrarsi in un lasso di tempo notevole, e non necessariamente si risolvono con la definitiva uscita dal luogo in cui hanno avuto origine. Gli effetti devastanti e destabilizzanti patiti dalla vittima mobbizzata possono arrivare a ripercuotersi anche nella sua sfera privata e comunitaria, influendo negativamente sulle sue capacità relazionali sia all’interno del nucleo familiare sia in altri ambiti sociali. Spesso, una volta perso il lavoro (con i conseguenti problemi finanziari) incontra difficoltà a reinserirsi e potrebbe rendersi necessario un supporto psicologico al fine di riguadagnare la propria autostima e sicurezza.
Non da sottovalutare è infine il ruolo di quanti assumono un atteggiamento di connivenza (colleghi o responsabili che si rendono “spettatori silenziosi” delle ingiustizie perpetrate nei confronti della vittima). Costoro, per superficialità, sottovalutazione del problema, o più semplicemente perché la cosa non li riguarda personalmente, ignorano o fanno finta di ignorare. Dietro tale scelta nella maggior parte dei casi c’è la paura di trovarsi coinvolti nella stessa situazione o addirittura di perdere il posto di lavoro. Ciò non li rende meno responsabili dell’ingiustizia in atto: il loro ruolo potrebbe infatti essere determinante in sede legale, là dove sarebbe richiesta una testimonianza, veritiera, sui fatti di loro conoscenza. In tal caso, c’è il rischio, per il mobbizzato, di essere ancora una volta vittima dell’ingiustizia: come dire “sopra il danno la beffa”. Direbbe Albert Einstein: “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare“.
CIFRE E CONSEGUENZE DEL MOBBING
I risultati di un sondaggio condotto nell’Unione Europea (2000-2001) mostrano che il 9% dei lavoratori europei, pari a 12 milioni di persone, segnalano di essere stati vittime di mobbing per un periodo di 12 mesi nel corso del 2000, mentre un terzo della popolazione dei paesi europei, pari a circa 40 milioni, ha dichiarato di soffrire di stress sul posto di lavoro. Le situazioni di malessere derivanti dal comportamento di superiori o colleghi ha fatto inoltre registrare all’INAIL una notevole impennata delle denunce (4.000 negli ultimi dieci anni, di cui 500 casi riconosciuti e risarciti), tanto da indurre l’ente a considerare il mobbing come malattia professionale non tabellare. Altrettanto allarmanti sono i dati emersi da un’indagine svolta dalla Società Italiana di Psicoterapia Integrata per lo Sviluppo Psicosociale (SIPISS), che rivelano un aumento delle denunce di maltrattamenti sul posto di lavoro del 30% nel 2010. L’autore di azioni mobbizzanti d’una certa gravità, non reca un danno solo alla diretta vittima, ma inevitabilmente procura un danno notevole all’intera collettività dei contribuenti. Nel caso di degenerazione verso malattie professionali è infatti il Sistema Sanitario Nazionale a doversi fare carico degli onerosi costi per terapie mediche o, nei casi più gravi, ricoveri ospedalieri. È inoltre importante considerare che gli effetti del mobbing si traducono anche in notevoli oneri per le aziende. A livello aziendale infatti, possono consistere in un maggior assenteismo e rotazione del personale, nonché minor efficacia e produttività, anche da parte degli altri dipendenti, i quali risentono del clima psicosociale negativo venutosi a creare nell’ambiente di lavoro. Non ultimo, la vittima del mobbing può ricorrere alle vie legali e avanzare alte richieste di risarcimento per i danni subiti.
LEGISLAZIONE
Fenomeno non certo nuovo ma nato con il lavoro stesso, solo di recente il mobbing è argomento ampiamente dibattuto nelle sedi istituzionali. Il primo a parlarne specificamente è stato lo psicologo svedese Heinz Leymann alla fine degli anni ottanta. La Commissione europea, con una direttiva (89/391 del 1989) emanata dal Consiglio, ha introdotto alcune misure per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori. Tale direttiva contiene le disposizioni di base per la salute e la sicurezza sul lavoro ed attribuisce ai datori di lavoro la responsabilità di garantire che i lavoratori dipendenti non soffrano danni per colpa del lavoro, anche come conseguenza del mobbing. Tutti gli Stati membri hanno recepito questa direttiva nel loro ordinamento ma solo alcuni hanno anche elaborato delle guide sulla prevenzione del mobbing. In virtù di ciò, i datori di lavoro, in consultazione con i lavoratori e i loro rappresentanti, dovrebbero: mirare ad impedire il mobbing; valutarne i rischi; agire in maniera adeguata per prevenire i danni. Nel 2001 il Parlamento Europeo dedica all’argomento uno dei suoi libri verdi, “Il mobbing sul posto di lavoro”. In Italia, dove il tema del mobbing è stato introdotto dallo psicologo Harald Ege, autore di un primo metodo (l’Ege 2002) per il riconoscimento del mobbing e del danno da esso derivante, a tutt’oggi manca una legge che tratti il problema nello specifico. Nel nostro codice penale il reato di mobbing non è contemplato. Secondo la giurisprudenza prevalente, elementi essenziali per la valutazione del mobbing sono: l’aggressione o persecuzione di carattere psicologico; la sua frequenza, sistematicità e durata nel tempo; il suo andamento progressivo; le conseguenze patologiche gravi che ne derivano per il lavoratore (Circolare Inps n. 95/bis del 2006). Due recenti sentenze della Corte di cassazione stabiliscono, l’una, che si potrà ricercare la figura di reato più vicina al caso di mobbing in quello di maltrattamenti commessi da persona dotata di autorità per l’esercizio di una professione, in base all’art. 572 (n. 33624 / 2007, Quinta Sezione Penale); l’altra, che il mobbing può integrare il reato di maltrattamenti in famiglia là dove il rapporto che intercorre tra lavoratore e datore di lavoro può essere considerato di natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i detti soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta da parte del soggetto più debole in quella che ricopre la posizione di supremazia (n. 685 / 2011, Sesta Sezione Penale). Oltre al predetto Codice Penale, esistono diverse norme costituzionali e civilistiche cui poter fare riferimento nei casi di comportamenti persecutori in ambito lavorativo. La nostra Costituzione (artt. 2, 3, 32, 35, 41) riconosce la tutela della salute come un diritto fondamentale dell’uomo e prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme; al Codice Civile (art. 2087) e allo Statuto dei lavoratori (D.Lgs. 626/94) ci si può appellare per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore. In ogni caso, il lavoratore, per ottenere il risarcimento da mobbing, deve dimostrare il collegamento della malattia o dell’impossibilità di prosecuzione del lavoro con una pluralità di comportamenti che si inseriscono in una precisa strategia persecutoria posta in essere dal datore di lavoro (o altra figura all’interno dell’organico aziendale) al fine di isolarlo psicologicamente e fisicamente tale da potersi configurare come “danno da mobbing”. Chi denuncia ha dunque l’onere della prova: deve produrre prove testimoniali e documentali. Nelle varie sentenze di Cassazione pronunciate negli ultimi anni, possiamo riscontrare la possibilità del riconoscimento del danno, e del relativo risarcimento: “Il mobbing cui sia sottoposto il lavoratore, oltre a potere causare sia un danno patrimoniale che biologico, ovviamente risarcibili, genera necessariamente tanto un danno morale, quanto un danno esistenziale, cioè di natura dinamico-relazionale, autonomamente e cumulativamente risarcibili ex art. 2059 c.c., anche se l’illecito non costituisca reato. (…) Il lavoratore vittima del mobbing che provi che le conseguenze pregiudizievoli sono in rapporto di causalità con le attività persecutorie compiute per nuocerlo ha diritto alla riparazione di tutti gli aspetti non patrimoniali di danno sofferti, anche se per la liquidazione non potrà che farsi ricorso al criterio dell’equità, trattandosi di riparare la lesione di valori inerenti alla persona.” (Tribunale di Agrigento, 1/2/2005). “(…) a seguito di quanto subito dai colleghi di pari grado (mobbing orizzontale) e/o dai superiori (mobbing verticale o bossing): tale danno alla professionalità del lavoratore, tutelata dagli art. 2, 35 e 41 cost., è risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c.” (Tribunale di Forlì, 10/3/2005). Una volta appurato il “danno da mobbing” patito dal ricorrente, a risponderne è il datore di lavoro, sia nel caso in cui sia egli stesso responsabile degli atti vessatori, sia nel caso in cui, essendone a conoscenza, non sia intervenuto: “Il datore di lavoro è obbligato a risarcire al dipendente il danno biologico conseguente a una pratica di mobbing posta in essere dai colleghi di lavoro, ove venga accertato che il superiore gerarchico, pur essendo a conoscenza dei comportamenti scorretti posti in essere da questi ultimi, non si sia attivato per farli cessare.” (Cassazione n. 18262 / 2007). “Il datore di lavoro risponde del danno da mobbing (vale a dire l’aggressione alla sfera psichica del lavoratore) ex art. 2087 c.c., a nulla rilevando che le condotte materiali siano state poste in essere da colleghi pari grado della vittima, in quanto quel che rileva unicamente è che il datore sapesse – ovvero potesse sapere – di quanto stava accadendo.” (Cassazione n. 6326, 23/3/2005). Appare dunque chiaro che, pur con una certa difficoltà, le cause di risarcimento del mobbing trovano nel campo della giustizia civile (e, come si è visto, talvolta anche in quello penale) una solida base giuridica nella giurisprudenza della Cassazione e dei tribunali civili.
SPUNTI BIBLIOGRAFICI E FILMOGRAFICI
“Mi scusi, venerabile maestà? Disponghi di me come meglio vuole! Mi concedi l’onore di essere il suo umilissimo servo! Com’è umano lei!”. Questa citazione, tratta dal film Fantozzi 2000 – La clonazione, ci invita a rivedere con una diversa prospettiva una delle saghe che ha più divertito gli italiani. Le rocambolesche vicende di Fantozzi (interpretate da Paolo Villaggio), costituiscono, sia pure con tono tragicomico, un antesignano cinematografico della tematica del mobbing nelle grandi aziende. Riviste col senno di poi, quelle situazioni apparentemente comiche e inverosimili rivelano un retrogusto amaro e quanto mai prossimo alla triste realtà di molti contesti lavorativi, in cui il dipendente finisce con il ripiegare in un atteggiamento servilistico e pienamente accondiscendente nei confronti del proprio superiore, da cui subisce tutta una serie di soprusi e azioni denigranti. In tempi più recenti, il tema è stato trattato senza concessioni al comico da Francesca Comencini, con il film Mi piace lavorare (Mobbing), accompagnato in cofanetto dal libro di Daniele Ranieri Mobbing. Il lavoro molesto. Tra i tanti libri usciti sull’argomento, segnaliamo in particolare: Cattivi capi, cattivi colleghi di Alessandro e Renato Gilioli, Mondadori, 2000; Il metodo antistronzi di Sutton I. Robert, ed. Elliot, 2007; Mobbing, storia di una donna che non si arrende di Caterina F. Pelle, ed. Memori, 2010; Stop a mobbing, straining e stress lavoro-correlato di Bruno Tronati, ed. Ediesse, 2011. Non ultimo, raccomandiamo la lettura del romanzo di Goffredo Parise, Il Padrone (1965), recentemente ripubblicato dall’Adelphi, di cui riportiamo questo emblematico passo: Quello che lo rende infelice sopra ogni altra cosa è il sospetto che non tutti lo considerino il padrone assoluto quale in realtà è: Cioè il solo dubbio che esistano da qualche parte riserve ai suoi poteri, prima lo manda su tutte le furie e poi lo sprofonda nella disperazione. Infatti egli vorrebbe che il suo potere non soltanto venisse accettato e riconosciuto da tutti (…), ma che tutti ricorressero a lui anche per le piccole cose.
Giuseppe Maggiore
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CASSAZIONI RECENTI SU MOBBING-DEMANSIONAMENTO-DEQUALIFICAZIONE
Aggiornata ad Agosto 2012*
(*) Si ringrazia per il presente elenco la Dott.ssa Simonetta Delle Donne.
ANNO 2012
- Cassazione Pen. n.16094 del 27/04/12 (mobbing e maltrattamenti)
- Cassazione n.12770 del 23/07/12 (mobbing)
- Cassazione n.12697 del 20/07/12 (reintegrazione)
- Cassazione n.11402 del 6/07/12 (licenziamento)
- Cassazione n.9965 dell’11/04/12 (reintegrazione)
- Cassazione n.9860 del 15/06/12 (demansionamento, danno esistenziale)
- Cassazione n.9201 del 7/06/12 (trasfer. lavoratore)
- Cassazione n.8526/12 (demansionamento)
- Cassazione n.7963 del 12/04 – 18/05/12 (forzata inattività)
- Cassazione n.7471 del 14/05/12 (dir.critica)
- Cassazione n.6033 del 18/04/12 (demansionamento)
- Cassazione n.5999 del 17/04/12 (mancata attrib.funz.)
- Cassazione 5582 del 6/04/12 (licenziamento)
- Cassazione Pen. n.12517 del 3/04/12 (maltrattamenti)
- Cassazione n.4797 del 26/03/12 (rifiuto trasferimento)
- Cassazione n.4712/12 (demansionamento)
- Cassazione n.4321 del 19/03/12 (mobbing)
- Cassazione n.4290 del 1°/02/12 (minacce)
- Cassazione n.4261 del 17/01 – 16/03/12 (dequalificazione professionale mobbing, reintegra)
- Cassazione n.3629 del 8/03/12 (licenziamento)
- Cassazione n.3187/12 (mobbing)
- Cassazione n.3057 del 29/02/12 (demansionamento)
- Cassazione n.2711 del 23/02/12 (demansionamento e danno esistenziale)
- Cassazione n.2257 del 16/02/12 (danno non patrimoniale)
- Cassazione n.1405 del 31/01/12 (licenziamento)
- Cass. 1404/12 (scarso rendimento)
- Cassazione n.1062/12
- Cassazione n.755 del 19/01/12
- Cassazione n.250/12
- Cassazione n.236 del 12/01/12
- Cassazione n.89 del 10/01/12
- Cassazione n.87 del 10/01/12 (lesa integrità psico-fisica, prova)
- Cassazione n.8 del 2/01/12 (demansionamento).
ANNO 2011
- Cassazione Pen. n.43100 del 22/11/11 (mobbing)
- Cassazione n.30668 del 30/12/11
- Cassazione n.235 del 28/12/11
- Cassazione n.28962 del 27/12/11 (sanzionato e sostituito perché improduttivo)
- Cassazione n.28813 del 27/12/11
- Cassazione Penale n.28221 del 18/07/11
- Cassazione n.26205 del 6/12/11
- Cassazione n.25799 del 2/12/11
- Cassazione n.24718 del 23/11/11 (demans., prove) (RIC RG26174/09)
- Cassazione n.24500 del 21/11/11 (licenz. risarc. danni)
- Cassazione n.24476 del 21.11.2011 (il part time non può essere imposto) (RIC RG4252/09)
- Cassazione n.24135 del 17/11/11 (prova della subordinaz)(RIC RG 17842/09)
- Cassazione n.23673 dell’11/11/11 (occorrono comandi logici)
- Cassazione n.23240 del 8/11/2011 (perdita di chance, equa riparazione)(RICORSO RG1034/10)
- Cassazione n.22438 del 27.10.2011 (qualif.mansione)
- Cassazione n.22298/11 (RIC RG27346/07)
- Cassazione n.22129 del 25/10/11 (licenziamento, graduazione sanzione)(RIC RG2926/09)
- Cassazione n.22127/11 (RIC RG13794/07)
- Cassazione n.22008/11
- Cassazione n.21622/11 (RIC RG3042/09)
- Cassazione n.21619/11 (disagio psichico e psicosomatico) (RIC RG21537/07)
- Cassazione n.21486/11 (RIC RG18684/09)
- Cassazione n.21484/11 (RIC RG2299/09)
- Cassazione n.21437 del 17/10/11
- Cassazione n.21429/11 (RIC RG5114/07)
- Cassazione n.21044 del 13/10/11 (art.18, effettiva tutela lavoratore)
- Cassazione n.20980 del 12/10/11
- Cassazione n.20966 del 12/10/11 (illegittima privazione delle mansioni)
- Cassazione n.20663 del 07/10/11 (incarico a non fare nulla) (RIC RG34379/06)
- Cassazione n.19823 del 28/09/11 (mobbing)
- Cassazione n.19074 del 19/09/11 (valutaz. giusta causa)
- Cassazione n.18942 del 16/09/11 (prove)
- Cassazione n.18941 del 16/09/11 (accertamento mobbing)
- Cassazione n.18772 del 14/09/11
- Cassazione n.17956/11 (RIC RG11387/10)
- Cassazione n.17849/11 del 31/08/11
- Cassazione n.17739 del 29/08/11 (licenziamento gravità inadempimento)
- Cassazione n.17405 del 19/08/11 (licenziamento per aggressività)
- Cassazione n.17095 dell’8/08/11 (mobbing dequalificazione)
- Cassazione n.17089 dell’8/08/11 (RIC RG31329/07)
- Cassazione n.16925 del 3/08/11 (licenz. discriminatori)
- Cassazione n.16780 del 29/07/11
- Cassazione n.14872 del 6/07/11 (licenz. inidoneità fisica)
- Cassazione n.14713 del 5/07/11 (licenz. dirigente demans. lesioni)
- Cassazione n.14517 del 1°/07/11 (licenziamento per soppressione posto)
- Cassazione n.13496 del 20/06/11
- Cassazione n.13356 del 17/06/11 (danno biologico ed esistenz., mobbing)
- Cassazione n.12557 del 9/06/11 (mutamento in peius)
- Cassazione n.12489 dell’8/06/11 (potere datore lav.)
- Cassazione n.12211 del 6/06/11
- Cassazione n.12048 del 31.05.2011 (atti reiterati e sistematici, mobbing verticale)
- Cassazione n.11356 del 24/05/11 (non basta mancanza assunzioni)
- Cassazione n.11193 del 20/05/11 (penosità e pesantezza del demans.)
- Cassazione n.9770 del 4/05/11 (sanzione per rifiuto prestaz.lav. sostituz collega)
- Cassazione n.9291/11 (RIC RG3360/07)
- Cassazione n.8527 del 14/04/11 (dequalificazione, manca addestramento)
- Cassazione n.8058/11
- Cassazione n.7272 del 30/03/11 (prescrizione decennale)
- Cassazione n.7064 del 28/03/11 (omessa reintegraz. danno sussistenza)
- Cassazione n.7046 del 28/03/11 (licenz.)
- Cassazione n.6295/11
- Cassazione n.6286/11 del 18/03/11
- Cassazione n.6282 del 18/03/11 (licenz.)
- Cassazione n.6148 del 16/03/11 (difficile rapporto pers. tra il dip. e il nuovo direttore) (RIC RG3307/08)
- Cassazione n.5555 del 9/03/11 (licenz. ritorsivo)
- Cassazione n.5437 del 8/03/11 (usura da stress psico-fisico) (RIC RG2395/07)
- Cassazione n.5237 del 4/03/11 (demansionamento)
- Cassazione n.5138 del 3/03/11 (danno esistenziale da dequalificazione)
- Cassazione n.4274 del 22/02/11 (demansionamento)
- Cassazione n.4269 del 22/02/11 (un mutamento delle mansioni)
- Cassazione n.4109 del 18/02/11 (no mobbing)
- Cassazione n.3968 del 18/02/11 (licenz. demans. giustif motivo)(RICORSO RG 9090/09)
- Cassazione n.3789 del 16/02/11
- Cassazione n.3040 del 8/02/11 (repechage)
- Cassazione n.2460 del 2/02/11 (licenz. rifiuto prestazione)
- Cassazione n.2153 del 31/01/11 (licenz. rifiuto della prestaz. lavorativa)
- Cassazione n.1699 del 25/01/11 (licenziamento imprudenza del lavoratore)
- Cassazione n.1246 del 20/02/11 (nuovi mezzi di prova in appello)
- Cassazione n.1075 del 18/01/11 (concorso per promozioni)
- Cassazione n.919 del 17/01/11 (classificazione del personale, livelli, contratto collettivo)
- Cassazione Pen. n.685 del 13/01/11 (mobbing)(solo tutela civile)
- Cassazione n.547 del 12/01/11 (rifiuto di eseguire prestazione)
- Cassazione n.459 del 11/01/11 (impoverimento della capacità professionale e perdita di chance)(RIC RG26963/07)
- Cassazione n.35 del 3/01/11 (giusta causa di licenziamento).
ANNO 2010
- Cassazione Pen. n. 44803 del 21/12/10 (violenza, vessazioni)
- Cassazione n.24347 del 1°/12/10 (licenziamento ritorsivo)
- Cassazione n.24233 del 30/11/10 (demani., risarcimento)
- Cassazione n.24209 del 30/11/10 (licenz, gravità condotte)
- Cassazione n.24138 del 29/11/10 (finzione del lavoratore)
- Cassazione n.23926 del 25/11/10 (mansioni inferiori, dequalific., equivalenza)
- Cassazione 23924 del 25 novembre 2010 (sanzioni discip.)
- Cassazione n.23638 del 22/11/10 (qualificazione)
- Cassazione n.23132 del 16/11/10 (licenz. disc., proporzionalità)
- Cassazione n.22900 dell’11/11/10 (licenz. disciplinare)
- Cassazione n.22443 del 4/11/10 (licenz.)
- Cassazione n.22029 del 28/10/10 (licenz., lavoro in malattia)
- Cassazione n.21972 del 27/10/10 (licenz. ritorsivo)
- Cassazione n.21967 del 27/10/10 (rifiuto trasf x h marito)
- Cassazione n.21748 del 22/10/10 (licenz.)
- Cassazione n.21153 del 13/10/10 (insubordinazione)
- Cassazione n.19048 del 06/09/10 (competenza)
- Cassazione n.18279 del 5/08/10 (diritto di difesa)
- Cassazione n.18278 del 5/08/10 (tutela della personalità)
- Cassazione n.17969 del 2/08/10 (licenz. per danno a immagine)
- Cassazione n.16412 del 13/07/10 (mobbing, patologia)
- Cassazione n.16295 del 12/7/2010
- Cassazione n.14212 del 14/06/10 (motivaz.licenziamento)
- Cassazione n.13281 del 31/05/10 (demansionamento)
- Cassazione n.10712 del 4/05/10 (inerzia).
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