Ciò che non ha termine non ha figura alcuna.
Leonardo Da Vinci
La mostra Homo sapiens / La grande storia della diversità umana, allestita nel Palazzo delle Esposizioni di Roma, rimarrà aperta al pubblico fino al 12 febbraio 2012. Il coordinamento è stato curato da Luigi Luca Cavalli Sforza e Telmo Pievani, con il prezioso supporto internazionale di antropologi, paleoantropologi, genetisti e linguisti. L’esposizione è articolata in sei grandi sezioni: Mal d’Africa; La solitudine è un’invenzione recente; I geni, i popoli, le lingue; Tracce di mondi perduti; Italia, l’unità nella diversità; Tutti parenti, tutti differenti: le radici intrecciate della civiltà. Il percorso espositivo si avvale anche di sezioni interattive e multimediali che ne sottolineano l’aspetto didattico. Indiscusso protagonista è l’uomo e, in particolare, il suo lungo e sofferto cammino dai primordi fino alla modernità. Un grande affresco sul meraviglioso processo evolutivo che ha reso possibile la nostra esistenza. La mostra racconta tutte le tappe fondamentali dell’evoluzione di Homo Sapiens e tutti gli spostamenti e le migrazioni che dal cuore antico dell’Africa hanno portato alla graduale colonizzazione dell’intero pianeta. Primati, antropomorfe, ominidi, homo antecessor, homo ergaster, homo floresiensis, homo erectus… dalla locomozione quadrupede a quella bipede, gradino dopo gradino, passando attraverso una lenta trasformazione morfologica che nell’ordine di migliaia e migliaia di anni è culminata nell’icona del sapiens sapiens. Un cammino accidentato e tortuoso, costellato di improvvise e casuali biforcazioni e ostacolato da ere glaciali e lunghi periodi di ipersiccità; un cammino che non ha concesso scorciatoie né sentieri privilegiati, un lungo esodo in lotta per la sopravvivenza. A fatica riusciamo a comprendere la sterminata vastità dell’arco temporale intercorso tra l’antropomorfa e l’uomo moderno (ne rende bene l’idea la nostra conta ufficiale degli anni arbitrariamente fissata al cosiddetto 2011 d. C.); se il mondo di 2000 anni fa ci sembra lontano al punto da sconfinare quasi nel leggendario, di contro quello di decine e decine di migliaia di anni fa contraddice la nostra stessa capacità di calcolare il tempo, non stupisce quindi lo straniamento generale di fronte a datazioni così incredibilmente estese. Per raggiungere il nostro antenato primordiale dobbiamo dunque muoverci su una scala temporale di proporzioni immani, inimmaginabili se rapportate alla durata di una vita umana, e soltanto compiendo questo sforzo potremo raggiungerlo per comprenderlo compiutamente. Il viaggio di Homo Sapiens comincia all’incirca 200.000 anni fa nel continente africano. Da allora, fino all’ultima grande migrazione avvenuta 18.000 anni fa, l’avanzata dei nostri antenati è stata continua e inarrestabile. L’incontro con l’uomo di Neandertal in Europa ha segnato poi uno dei momenti più cruciali per la nostra fortuna evolutiva. Nelle sezioni espositive dedicate al Paleolitico e al Neolitico ci troviamo di fronte a una creatura più familiare, a un antenato già più simile a noi, con tutto il suo repertorio di utensili e protostrumenti riconducibili al fabbisogno quotidiano. La vera rivoluzione in chiave moderna dobbiamo individuarla proprio tra Paleolitico e Neolitico. Risalgono all’incirca a 25.000 anni fa i primi oggetti in senso compiuto, pur se ancora rozzi e ingenui. Pezzi di legno e schegge di pietra, rami intagliati e bifacciali di selce, pelli e resine, e poi naturalmente il fuoco, la grande fucina che successivamente sarebbe culminata con la fusione dei metalli (rame e bronzo). Ai fini meramente utilitaristici si affiancheranno gradualmente anche quelli protoartistici e protoreligiosi, e la mostra ne ripercorre i momenti più significativi sulla base dei rinvenimenti più recenti. La riflessione si concentra sul segno, su quella necessità tipicamente umana di voler lasciare un’impronta, una traccia, un messaggio, una testimonianza. Anche gli animali lasciano segni, marcano il loro territorio, scavano tane, costruiscono nidi, favi e dighe, ma l’uomo è riuscito ad andare oltre, complice una bizzarra e fortunata combinazione di geni che l’ha favorito come mai aveva concesso a nessun’altra specie. Le straordinarie capacità prensili e tattili, la posizione eretta, l’allargamento della scatola cranica, la progressiva articolazione di un linguaggio complesso: tutto ha contribuito a quest’insolito e ineguagliato primato nel mondo naturale. Da questo punto di vista l’uomo non ha mai avuto rivali (neanche Neandertal si è rivelato un rivale particolarmente temibile). La creatività, il senso della bellezza, il sentimento del sacro e determinati valori comunitari sembrano misteriosamente innati nel protouomo, e solo successivamente affinati. L’arte rupestre (le prime pitture su pareti e soffitti delle caverne) e l’erezione dei monoliti ci testimoniano l’insorgere nel protouomo l’urgenza di una comunicazione individuale e collettiva, unitamente a sentimenti di carattere religioso e propiziatorio (si vedano le prime forme di sepoltura e di pratica funeraria). Dal segno arcaico, inciso o dipinto, al decoro vero e proprio intercorrono migliaia e migliaia di anni. La definizione “arte preistorica” è già di per sé etimologicamente approssimativa, copre all’incirca un milione di anni e si articola per grandi linee in tre periodi: Paleolitico, Neolitico e Età del Bronzo. Le datazioni delle pitture rupestri (ricavate con la tecnica del radio-carbonio e comparate a misurazioni geologiche) sono incerte e spesso oggetto di continui ripensamenti. I siti preistorici più noti e suggestivi finora scoperti si trovano tra Francia, Spagna e Sud-Africa. Tra le raffigurazioni più ricorrenti compaiono sagome di bisonti, cavalli, cervi e orsi (gli animali cacciati, una delle principali fonti per la sussistenza); più rara la figura umana, che quando compare è stilizzata nell’azione, con pochissimi dettagli anatomici. Presenti, molto significativamente, sono invece le impronte delle mani, che paleoantropologi e archeologi leggono come i primi segni simbolici dell’individualità umana (celebre l’impronta di Pech Merle Lot in Francia). Nel Neolitico (dal VI al III millennio a.C.) la lavorazione dell’argilla si traduce presto in una decorazione vascolare a motivi geometrici (segni modulari semplici, orizzontali o zigzagati), un protoalfabeto segnico che prelude alle prime forme di scrittura. Al nostro sguardo contemporaneo queste prime tracce cromo-segniche assumono emblematicamente valore di opera d’arte. Potremmo domandarci: le pitture della grotta di Lascaux hanno forse qualcosa da invidiare agli affreschi della Cappella Sistina? Certo tra l’obesa e deforme Venere di Willendorf e la Venere botticelliana c’è una bella differenza (anche l’occhio vuole la sua parte!), ma la seconda deve la sua bellezza e la sua perfezione alle flaccide rotondità della prima. Tra le due Veneri è passato un mondo (Veneri greche comprese), percorrendo una sola strada, in una sola direzione, dritto dritto fino a noi. Infinitamente preziose, queste opere sono la testimonianza del nostro slancio evolutivo e segnano il definitivo distacco tra l’uomo arcaico e l’uomo moderno. Inoltre dobbiamo considerare che ha del miracoloso il fatto che reperti così antichi e rari siano giunti intatti fino a noi (e sono in molti tra gli archeologi a sostenere che il meglio forse attende ancora di venire alla luce). Quello che è emerso finora, comunque, è già di per sé stupefacente. Alla cosiddetta artisticità il nostro antenato perviene per gradi, come uno scolaretto che diventa anno dopo anno sempre più diligente. Sezione dopo sezione la mostra ci guida lungo un itinerario in fieri che vede noi stessi, l’attuale civiltà contemporanea, come traguardo finale. Tutta la documentazione presentata ai visitatori si basa sui risultati più recenti dell’indagine paleoantropologica comparata internazionale; sappiamo bene però che la preistoria, proprio in quanto tale, la si riscrive giorno per giorno, alla luce di scoperte e intuizioni sempre nuove che spesso mettono in discussione certezze e dati precedentemente acquisiti. Il passato (come insegna
il grande storico Marc Bloch) è sempre suscettibile di trascrizioni nuove, soprattutto per quanto riguarda le datazioni. Negli habitat ricostruiti, con sommo dispiacere dei creazionisti americani, accanto all’uomo non compare nessun dinosauro e nessun altro inquietante bestione. La decisa impronta darwinista/evoluzionista, in tempi di assurdi scientifici e di curiose interpretazioni bibliche, ci è ampiamente garantita dall’intelligenza e dal buonsenso dei curatori (Telmo Pievani in primis, del quale consigliamo vivamente Homo Sapiens e altre catastrofi, Meltemi, 2002). Ai contenuti didattici si affianca un messaggio quanto mai prezioso: la forte unità biologica e la straordinaria diversità culturale della specie umana. Tutte le migrazioni intraprese da Homo Sapiens alla conquista del mondo abitabile partono da un appezzamento di terra ben preciso e circoscritto; Mamma Africa è il grembo dell’umanità, la grande patria di cui tutti siamo cittadini, la prima casa dell’intero genere umano. Implicito, e al tempo stesso manifesto, è il monito a qualsivoglia forma di razzismo o di orgoglio territoriale. Sull’incommensurabile valore educativo della scienza non si insisterà mai abbastanza. Ben vengano allora mostre come Homo Sapiens / La grande storia della diversità umana (degna prosecuzione della grande esposizione dedicata a Darwin nel 2009, sempre nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di Roma).
Massimiliano Sardina
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