Il film Carnage tratta del rapporto tra genitori e figli e di come i genitori dimenticano di esser stati bambini.
L’opera pone lo spettatore di fronte all’evidenza che i canoni della società occidentale vengono continuamente riadattati a nostro piacimento: vittime e carnefici non sono la stessa cosa. Pare ovvio.
Eppure la morale, l’ordine, l’educazione e le buone maniere diventano oggetto di carneficina non appena un elemento accidentale turba il nostro ordine borghese: un cellulare che viene buttato in un vaso di fiori, una rivista imbrattata involontariamente o una borsetta scaraventata sul tappeto. Due bambini di undici anni litigano per futili motivi al Brooklyn Bridge Park. Uno rompe due incisivi all’altro. I genitori di entrambi si incontrano per redigere una memoria dell’accaduto e risolvere civilmente, come si conviene tra persone cui la morale impone di dominare i propri impulsi. Le due coppie di genitori, avendo una certa idea della convivenza civile iniziano un imbarazzante dialogo dove buone maniere, cortesie e toni pacati si trasformano ben presto in una discussione incontrollabile, urlata, carica di recriminazioni, sensi di colpa più o meno esternati e rabbie represse cui viene dato libero sfogo. Sarà una discesa agli inferi, un guardarsi dentro urlando all’altro, al vicino, al prossimo nostro, tutto l’orrore accumulato nel tempo. Film claustrofobico, girato all’interno di un appartamento. Polanski isola i quattro attori Kate Winslet, Jodie Foster, Christoph Waltz e John C. Reilly all’interno di quattro mura, così come aveva isolato “il pianista” nel ghetto ebraico; l’umanità vene isolata, osservata, esaminata, mostrata nella sua nudità, esposta allo spettatore affinché possa riconoscersi nelle miserie e nelle debolezze, come negli scatti d’ira e nelle penose complicità. Il nostro essere eternamente misantropi ma appassionati all’umano. Un tour de force per quattro attori impagabili non ripagati da un doppiaggio all’altezza. Ma poco importa. Jodie Foster (debordante nelle scene da ubriaca, sobria nella prima parte), mamma della parte lesa, è una donna fredda, rigida, fortemente attaccata alle regole; ha scritto un libro e si occupa dei problemi delle popolazioni africane. Una donna impegnata che però non riesce a stabilire empatia con l’altra mamma, la Winslet (una battuta del copione, una frase recitata tra i denti: “in che lingua devo parlare con quella donna?”) Le due donne non si piacciono. I due uomini vorrebbero risolvere sbrigativamente, tesi come sono ad ostentare larghezza di vedute e credere nella promessa dell’apparenza. Penelope (la Foster nel ruolo di una vita) è interessata alle reazioni del figlio dell’altra coppia, vuole sapere come vive l’esperienza, se ne è consapevole: “si rende conto di aver sfigurato un suo compagno?” La parola violenza aleggia per buona parte del film ed esplode realmente quando Winslet, debole di stomaco, vomita sulle preziose riviste collezionate gelosamente dalla Foster. Il dialogo finale tra la Foster e il papà dell’aggressore si rivela di profondità inaudita:
- perché deve essere tutto così stressante?
- lei ragiona troppo. Ha il diritto di avere le sue idee ma non per questo deve vantarsene.
Usciti dalla sala viene da chiedersi: quanto siamo disposti a concedere ai nostri simili?
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