di Massimiliano Sardina
Il Libro della Vita comincia con un uomo e una donna in un giardino.
E termina con l’Apocalisse.
(A Woman of No Importance, Oscar Wilde)
Fino a pochi decenni fa ci figuravamo la Notte dei Tempi come il regno indiscusso delle ombre, scientificamente impenetrabile, una dimensione spazio-temporale cui solo le speculazioni filosofiche o religiose potevano arbitrariamente accostarsi. Oggi, alla luce delle più attuali indagini comparate, possiamo tranquillamente affermare che questa tenebra fitta si è diradata in una più accessibile e rassicurante penombra. Vero è che più ci si proietta indietro e più le cose si complicano, ma val ben la pena di tentare visto che la posta in gioco è la nostra stessa natura di uomini. In un certo senso, da un punto di vista squisitamente paleoantropologico, siamo tutti orfanelli in cerca di mamma e papà. I veri mamma e papà, quelli che somaticamente non ci somigliano affatto e dei quali all’anagrafe non c’è nessuna traccia. Per rintracciare questi latitanti recidivi dobbiamo abbandonare le traiettorie consuete e spingerci indietro, molto, molto indietro nel tempo. La nostra storia, la storia di ciascuno di noi, ebbe inizio nel continente africano per l’appunto nella Notte dei Tempi o, se si preferisce, all’alba dell’umanità. Genetisti e paleoantropologi già da tempo hanno intrapreso un viaggio a ritroso tra le complesse ramificazioni del nostro albero genealogico primordiale, un viaggio che attraversa le ere geologiche e che mette in crisi la nostra concezione antropocentrica del tempo. Discendiamo tutti, nessuno escluso, da un ristretto gruppo di Homo Sapiens che si è sviluppato in Africa circa 200.000 anni fa. Dopo un lungo periodo di permanenza e di stanzialità questa protoumanità ha cominciato lentamente a migrare (presumibilmente per sfuggire ad avverse condizioni climatiche), adattandosi e diversificandosi di volta in volta nei più eterogenei habitat territoriali; le adesioni contestuali e la capacità d’adattamento hanno reso la specie Homo Sapiens una delle più varie in natura (almeno da un punto di vista strettamente fisico). Tutte le differenze che caratterizzano la specie umana – valga come esempio l’accostamento tra un eschimese e un etiope – devono necessariamente ricondursi a piccolissime, apparentemente irrilevanti, varianti genetiche. Il nostro DNA è costellato sì di microscopiche variazioni, ma soprattutto è caratterizzato da costanti. I genetisti studiano proprio queste costanti per ricostruire il processo evolutivo dell’umanità. La costante dell’uomo è il cosiddetto cromosoma Y, una codificazione genetica che viene trasmessa esclusivamente da padre in figlio e che è riconducibile a un protouomo vissuto in Africa circa 60.000 anni fa. Questo protouomo è stato battezzato dalla scienza: Adamo-Y cromosomale (o cromosomiale). Il riferimento al Primo Uomo edenico della Genesi non intende ipotizzare che il maschio ancestrale sia stato il solo uomo maschio del suo tempo, ma semplicemente colui che generò una stirpe continua di figli maschi fino ai giorni nostri (a questo primo uomo convergono tutte le popolazioni attuali). Nella donna, invece, assume un’importanza cruciale il DNA contenuto nella complessa struttura cellulare del mitocondrio; quest’ultimo è presente anche nell’uomo, ma soltanto nella donna viene trasmesso. Il DNA mitocondriale è riconducibile a una protodonna vissuta in Africa tra i 150.000 e i 200.000 anni fa. Anche per questa protodonna la scienza ha coniato un nome emblematico: Eva mitocondriale. Anche qui il riferimento all’Eva edenica non vuol significare che era la sola femmina umana del suo tempo (circa 20.000 esemplari della sua stessa specie potrebbero esserle stati coevi, ma solo Eva mitocondriale generò una stirpe continua di figlie femmine ancora oggi presente). Eva mitocondriale è la sola femmina del suo tempo dalla quale discendono per vie materne tutte le persone oggi in vita). Possiamo definire Eva mitocondriale la radice più antica dell’albero genealogico umano. È il più recente antenato mitocondriale di tutti gli individui in vita (ed è ovvio che anche sua madre, sua nonna, sua bisnonna etc. erano connesse alla continuità di questa linea materna). È questa Eva Nera, figlia di un’Africa atavica, la madre di tutti noi. Ancora oggi ogni novella-madre è portatrice di marcatori genetici collegati alla radice primordiale della nostra specie. A conti fatti sono circa 6.000 le generazioni che separano la Nuova Eva dall’Eva mitocondriale, e lungo tutto l’asse di questo tempo il 99,9% del DNA è rimasto inalterato. La chiave della nostra evoluzione è misteriosamente codificata in quel fatidico 0,1% restante, frutto di variazioni minuscole e casuali. Nello specifico, secondo la nomenclatura dell’alfabeto genetico, parliamo di micro-variazioni delle A, delle C, delle G e delle T che nel corso delle generazioni, su una scala temporale di migliaia di anni, si sono accumulate (e quindi trasmesse) nel nostro DNA. Queste micro-variazioni, così fondamentali per la nostra esistenza, sono definite per l’appunto: marcatori genetici. Circa 200.000 anni fa il codice genetico di Eva mitocondriale è stato interessato da una serie di variazioni casuali (una G al posto di una A, e qualche C al posto delle T); per copiatura queste mutazioni si sono poi trasmesse e reiterate da madre a figlia, generazione dopo generazione, fino all’Eva contemporanea del XXI secolo. Specifichiamo, per meglio chiarire, che in ogni individuo i cromosomi-Y si ereditano per via paterna, mentre i mitocondri si ereditano per via materna. L’Adamo cromosomico è il contraltare speculare dell’Eva mitocondriale, nonostante sia apparso tra i 50.000 e gli 80.000 anni dopo il suo referente femminile. Sappiamo che è così, ma le nostre attuali conoscenze scientifiche non ci consentono di spiegare il perché. Una delle teorie più note individua una correlazione tra l’apparizione dell’Adamo-Y cromosomale e la “Teoria della catastrofe di Toba”, una catastrofe che avrebbe innescato un violento restringimento del pool genico della nostra specie potenziandone così l’unità genetica; questa unità genetica, sempre secondo la suddetta teoria, si sarebbe ristretta (nel 70.000 a.C.) a poco più di un migliaio di individui. Questa teoria fornisce una spiegazione plausibile, ma per il momento non può essere confermata con dati attendibili. Un dato invece certo, lo abbiamo già sottolineato, è che Adamo-Y cromosomale non è stato coevo al suo contraltare Eva mitocondriale. I paleogenetisti studiano il problema da anni, e non è detto che non giungano presto a una svolta. I marcatori genetici sono i veri rami dell’albero genealogico dell’umanità, collegano tutti i contemporanei viventi a tutti gli antenati, fino alla radice originale. Oggi i genetisti studiano con particolare attenzione i marcatori delle singole popolazioni per ricostruire il cammino della protoumanità, un cammino che, come abbiamo già detto, è partito dall’Africa centrale e meridionale. Il continente africano è l’unico luogo del pianeta dove converge
indiscriminatamente tutto il nostro codice genetico. La prima Y, il primo snodo, la prima grande biforcazione genetica è avvenuta all’incirca 150.000 anni fa. Gli sconvolgimenti climatici furono il grande motore delle prime significative migrazioni. I nostri antenati (chiamiamoli così, per semplificare) si spinsero probabilmente alla ricerca di un clima più favorevole, e rischiarono più volte l’estinzione (l’intera popolazione protoumana si ridusse, almeno una volta, a un numero davvero esiguo di circa 2.000 individui). Ere glaciali e lunghi periodi di ipersiccità misero a dura prova i nostri ostinati progenitori. Intorno ai 70.000 anni fa le sorti però si ribaltarono, e l’Africa conobbe un’age d’or che permise alla protoumanità di prosperare e di evolversi. Circa 60.000 anni fa i nostri instancabili antenati raggiunsero la penisola arabica, e da quel momento in avanti il loro cammino alla conquista dell’intero pianeta fu inarrestabile. Iran, Pakistan, India, fino all’Asia sud-orientale. Intorno ai 45.000 anni fa il protouomo (o già uomo moderno) conquista anche il territorio australiano. L’analisi comparata dei marcatori genetici rende oggi possibile tracciare una mappa – sempre perfettibile e passibile di ritrascrizioni, poiché la paleoantropologia e la genetica sono pur sempre scienze sperimentali e in fieri – delle migrazioni intraprese dai nostri antenati sulla superficie mutevole della Terra. Circa 35.000 anni fa le praterie si diffondono in ogni direzione. In questa data i nostri antenati penetrano nell’odierna Europa. Qui avviene l’incontro tra il protouomo (o uomo moderno, cioè noi) e l’uomo di Neandertal. I Neandertaliani si erano stabiliti in Europa circa 300.000 anni prima dell’arrivo dei nostri antenati. Si erano adattati al contesto che li ospitava, e questo era stato sufficiente a garantirgli la sopravvivenza. L’uomo moderno godeva però di un maggior vantaggio evolutivo, possedeva armi più sofisticate (a lunga gittata) e strategie di caccia e sussistenza più elaborate e consolidate. L’incontro tra il protouomo (o uomo moderno) e il Neandertal (o Homo Neanderthalensis) fu uno dei momenti più cruciali del nostro passato evolutivo, e molti punti fondamentali non sono ancora stati chiariti compiutamente. I Neandertal si estinsero presto, la convivenza con l’uomo moderno durò solo poche migliaia di anni. Le ragioni non sono ancora ben chiare, né ci sono prove fossili che confermino potenziali accoppiamenti tra le due specie. Il clima favorevole dell’Europa permise all’uomo moderno di prosperare per generazioni. Circa 18.000 anni fa (in piena era glaciale) si verifica l’ultima grande migrazione, quella che dall’Alaska portò alla colonizzazione del sud-America (un viaggio di circa 16.000 km, reso possibile anche dall’abbassamento dei mari per via della glaciazione dei poli). Compiliamo queste mappature attraverso la comparazione dei marcatori genetici, cromosomali e mitocondriali. La nostra storia, ormai ci è chiaro, è scritta in caratteri piccolissimi, criptata nell’infinitamente piccolo. Oggi parliamo più di 5.000 lingue ma apparteniamo tutti, nessuno escluso, alla stessa famiglia. Allo stesso Adamo e alla stessa Eva. La Santa Madre Scienza ci ha consegnato (e sta continuando a farlo con sempre maggiore amore della verità e del puntiglio) un’informazione molto precisa che ha tutta la trasparenza di un dato incontrovertibile: siamo tutti fratelli. Bianchi o neri, gialli o verdi, sbiaditi o fosforescenti, scaturiamo tutti dal ventre oscuro dell’Africa, da un’antropomorfa biforcatasi per puro caso dal destino (forse) meno fortunato delle sue sorelle. Riconducendoci a un unico popolo la Scienza ci raccoglie in un’unica religione, a un rito celebrato tra fango e sole, senza distinzioni di razze e di etnie. L’umanità, quella che tanto sbrigativamente chiamiamo umanità, è il risultato di un sacrificio collettivo durato migliaia e migliaia di anni. È a questo presepio primordiale che dovremmo rivolgere il nostro inchino, superando quei biechi campanilismi nazionalistici, o peggio ancora regionalistici, che ci allontanano dalla nostra matrice comune, da quel pezzo di terra arida, da quel cretto inciso dal sole nel fango dove si è versata la prima placenta. Eva mitocondriale e Adamo-Y cromosomale sono le divinità discrete che ci hanno elargito la vita. Il lavorio infinitesimale dei nostri piccoli geni ha eretto cattedrali e grattacieli, il tutto con estrema pazienza, passando attraverso rami spezzati e colli di bottiglia, perseverando con il solo obiettivo di garantire la vita. Commetteremmo un errore se considerassimo l’antropomorfa (o anello mancante) come il nostro progenitore ante litteram; dobbiamo spingerci molto più indietro per individuare la nostra vera origine. Indietro nella grande era dei mammiferi, più indietro in quella dei vertebrati, e ancora più indietro dai protovertebrati ai cordati fino all’anfiosso, al pikaia, e giù dal pluricellulare all’unicellulare fino a quel puntino di vita nell’inorganico che è il batterio. La lettera Y (con le sue due stanghette che si dipartono dal tronco centrale) sintetizza bene graficamente sia la scissione/clonazione primordiale (l’uno monocellulare che per protopartenogenesi diventa due) e sia quella fatale e fortunata biforcazione che centinaia di migliaia di
anni fa ci ha affrancati dal ramo “meno evoluto” delle prime antropomorfe. Scendendo a ritroso dall’albero della vita (stanghetta dopo stanghetta, ramo dopo ramo fino a riassorbire tutte le Y) scopriamo che i progenitori non sono “due” ma “uno solo”. Il nostro vero progenitore – nostro come di qualunque altra specie animale e vegetale che popola la Terra – è stato il primo microorganismo nucleato, è infatti in questo “puntino” vivace e instabile che va rintracciato il primo anelito di vita. Il passaggio dal micro al macro lo ha garantito l’evoluzione (dal batterio al mastodonte, passando attraverso tutte le forme e le dimensioni possibili). Così come il pixel compone l’immagine, così noi siamo la summa generata dall’iperlillipuziano (lo stesso processo è alla base della Teoria del Big Bang, l’infinitamente grande come conseguenza per espansione multidirezionale dell’infinitamente piccolo). Dai germogli più freschi (noi) alla radice prima (quel nanerottolo del nostro progenitore): un viaggio meraviglioso, straordinariamente ricostruito da Richard Dawkins nel recente saggio Il racconto dell’antenato (Mondadori, 2006). La scienza ci insegna quanto le somiglianze morfologiche possano ingannarci. La vera Eva e il vero Adamo (bisessuati, prima ancora della scissione dei sessi) non erano null’altro che un organismo nucleato monocellulare che a un certo punto, non si sa bene perché, cede alla necessità di clonarsi, di scindersi in due, fino al miracolo della complessità pluricellulare. La vita nasce da un meccanismo semplice. La complessità non ne è che la conseguenza diretta. Ci siamo evoluti e stiamo evolvendo. Tra milioni di anni, se ci saremo, con molta probabilità saremo morfologicamente diversi da come adesso siamo. A dispetto delle 5.000 lingue parlate sulla terra, l’unico alfabeto che conta lo parlano solo i geni, un codice misterioso e affascinante nel quale si intrecciano poesia e matematica, un linguaggio che scavalca ogni cultura e dal quale attendiamo di comprendere il 99,9% dei segreti che vi sono riposti. Per intanto contentiamoci delle icone protoumane di Eva mitocondriale e Adamo-Y cromosomale. Tutto sommato, diciamocelo, è più consolante figurarsi dei progenitori vagamente scimmieschi piuttosto che un batterio-mamma e un batterio-papà.
Massimiliano Sardina
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 9 – Dicembre 2011
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leggendo questo articolo sembra che dia abbia messo il micocondrio e il cosiddetto cromosoma Y