di Elena De Santis
Un nuovo genere di soap opera va sempre più per la maggiore nei palinsesti della tivù generalista, parliamo della morbosa spettacolarizzazione dei casi più avvincenti di cronaca nera. Alla faccia della privacy, della tutela dei minori ma soprattutto del buongusto questo nuovo genere televisivo ha ormai acquistato un’identità propria rivelandosi funzionale sia a programmi di due – tre ore in prima serata che a strisce di minutaggio più ridotte nella programmazione pomeridiana; un intrattenimento tout court spesso inframmezzato senza alcun ritegno al gossip più spicciolo e alla cronaca rosa. Il format è pressoché a costi zero. Vengono sguinzagliati i cosiddetti “inviati” (alias giornalisti) sui luoghi del crimine e preferibilmente davanti alle case dei familiari delle vittime o affini. Un gettone di presenza agli opinionisti di turno (criminologi all’occasione), qualche ricostruzione video per intervallare il death-talk-show, e il gioco è fatto. Non tutti i casi di cronaca nera si guadagnano la sovraesposizione mediatica. Perché un caso di cronaca nera abbia successo occorrono ingredienti specifici: la bella presenza dei protagonisti, certe connotazioni pruriginose a sfondo sessuale o intriganti dinamiche da romanzetto giallo. Quando gli ingredienti ci sono tutti allora la bomba esplode, i riflettori si accendono e tutta l’attenzione si catalizza sulla singolarità del caso in oggetto. Non occorre fare i nomi di quelle trasmissioni che fanno il quarto grado a questo o a quell’altro episodio delittuoso. Come in un’infinita telenovela argentina tutto si diluisce all’inverosimile; in assenza di news e di veri e propri colpi di scena queste trasmissioni sono diventate abili ad allungare il brodo con mille astuti espedienti. Fioccano così interviste, confessioni esclusive, intercettazioni che spaziano dal vicino di casa ai più improbabili e lontani gradi di parentela. Tutto fa brodo, sì. Le dinamiche sono quelle tipiche del pettegolezzo. Se il paese è piccolo e la gente mormora, la televisione è grande e la gente si sente legittimata a parlare a sproposito. Presentatori e giornalisti hanno imparato a mascherare la sciacallagine dietro la preoccupazione del buon cristiano: “…affinché queste cose non accadano più, affinché torni a splendere il sole nella comunità”. Risucchiati dalla vorace macchina mediatica i parenti delle vittime finiscono per diventare essi stessi ingranaggi di un meccanismo perverso, e allo stesso modo vengono fagocitati i telespettatori. Nonostante più di qualcuno abbia puntato il dito su questo necro-trash, denunciando a più riprese la pratica vergognosa della speculazione sulle disgrazie altrui, nessuna disposizione correttiva è stata mai presa seriamente a riguardo. Quando l’audience sale bisogna solo assecondarlo e, se necessario, alzare ancor di più i toni per incrementare più fruttuosamente gli ascolti. Preda di un ricatto psicologico bello e buono, il grande pubblico assorbe senza reagire, introietta e consuma il dolore così come fa con i prodotti del mulino bianco e con le fiction. Quello che è cambiato rispetto ai tempi passati sono le proporzioni, perché un conto è dare la notizia e commentarla nella giusta misura, altra storia è invece amplificarla e gonfiarla fino a farle assumere connotazioni inquietanti e grottesche. Poco o nulla potranno gli interventi del cosiddetto osservatorio; la pubblicità, semplicemente, premia le aziende più redditizie, quelle che riescono a racimolare la maggior fascia di utenza (se Kant facesse audience gli sponsor seguirebbero il traino dei programmi culturali). Televisivamente parlando il confine tra buongusto e cattivo gusto, tra lecito e illecito è davvero sottile, forse quasi inesistente. La verità è che la situazione è sfuggita un po’ di mano a tutti. Vittime comprese.
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