L’avanzata degli anglicismi vs la lingua dantesca

di Vanessa Pillirone

–          Ma sai, ho avuto una holding, una convention. Ho fatto un marketing, un franchising, un business. Abbiamo fatto un brunch, un sit-in, un check-up …

–          Scusa, ma che lavoro fai?

–          Il cocomeraio.

–          Beh, interessante!

Quanto appena letto è solo uno stralcio di un piccolo sketch, di parecchi mesi fa, del celebre comico romano Enrico Brignano. Si tratta di una gag che ironizza sull’abbondante uso di termini inglesi nei discorsi della quotidianità. Fuori contesto è assai difficile comprenderla, ma soprattutto è ben difficile riuscire a ridere senza godere dell’espressività del suo autore. Ciononostante queste parole sono appropriate per inoltrarci verso uno dei temi che, pur arrivando raramente agli onori della ribalta, è assai significativo nella società attuale. Stiamo parlando della questione linguistica: i prestiti da altri idiomi arricchiscono o impoveriscono la nostra lingua? Il dibattito è ampiamente aperto. Non esistono ragioni aprioristiche per le quali una posizione possa primeggiare sull’altra. Ciò, però, non deve indurci all’immobilità dinnanzi all’impossibilità di scegliere, ma, al contrario, deve offrire mille e più occasioni per riflettere sul tema. A tal proposito ci va di segnalare che, negli ultimi decenni, due iniziative si sono distinte in quest’ambito: Il “Manifesto in difesa della lingua italiana” presentato al Festival di poesia di Induno, Olona e Varese, nel 1995, da Filippo Ravizza e Franco Manzoni, e quello presentato a Roma, nel 2000, in occasione della nascita, per iniziativa di un gruppo di parlamentari appartenenti a diversi gruppi politici – Saverio Vertone, Luigi Manconi, Aldo Masullo, Ferdinando Pappalardo, Vittorio Sermonti, Mario Crescenzio, Domenico Fisichella, Domenico Contestabile, Paolo Giaretta – dell’Associazione La bella lingua. Entrambe le iniziative si collocano in difesa della lingua italiana individuando, nel dilagare di anglicismi e di espressioni del basic english, il chiaro sintomo di una fase di crisi della nostra lingua. I promotori non intendono chiudersi in uno sterile isolazionismo linguistico che ignori i vantaggi del confronto e del mutualismo con gli altri idiomi. Ma ciò non li porta a giustificare la scarsa inventiva che oggi sembra marcare la lingua dantesca. Ad esempio nel primo dei due manifesti si dice chiaramente che “assistiamo ogni giorno all’impotenza di un intero sistema culturale, il nostro, di creare nuove parole. E contemporaneamente vediamo che questa lacuna viene colmata attraverso l’assunzione massiccia ed indiscriminata di termini stranieri”. A tali parole sembra quasi fare eco il secondo testo quando sottolinea che “una lingua è viva quando non ricorre a prefabbricati verbali, propri o altrui, per inventare comunicazione quotidiana o creazione letteraria, ma attinge alla falda profonda delle proprie potenziali risorse espressive”, ammettendo così che la lingua italiana si trova in una situazione di quasi agonia. Ecco perché entrambi i testi, pur rivolgendosi a pubblici diversi e pur adottando toni e effetti enfatici palesemente antitetici, auspicano e invitano ad una nuova presa di coscienza affinché la lingua di Dante non muoia definitivamente, non precipiti in un baratro senza ritorno. Sembra, a questo punto, di essere dinnanzi ad una situazione drammatica, ma forse una speranza c’è ancora. Tutti gli anni, i più prestigiosi dizionari della lingua italiana si presentano sul mercato librario con nuove edizioni aggiornate per illustrare quell’evoluzione e quella mancanza di stasi dell’italiano che altrimenti determinerebbe la sua condanna a morte. I più scettici respingeranno questa tesi con la facile accusa per cui i nuovi vocaboli altro non sono che semplici prestiti linguistici (software, hardware, management …). In realtà non va dimenticato che non tutto è così facile. Accanto a francesismi, anglicismi, ispanismi, c’è dell’altro, c’è l’italiano. Si pensi ai termini videofonino e cinepanettone. Casi molto semplici di neologismi – si tratta, in tutta evidenza, di parole composte in cui un’inedita associazione lessicale permette di riferirsi a oggetti nuovi per cui la lingua non disponeva di strumenti adeguati.  Ma questi ci bastano per provare che non stiamo vivendo in una fase di assoluta decadenza. Ciò però non esime dal fatto che le difficoltà ci sono e che il patrimonio linguistico dantesco rischia lo stesso di vedere aggravato il suo stato di salute. Ecco perché il livello di guardia sul problema non va abbassato. A tal proposito ci teniamo a ringraziare tutti quegli operatori del settore della divulgazione della lingua italiana, in Italia e all’estero. In primis, la Società Dante Alighieri che fin dal 1889 è impegnata in questa missione. Il suo lavoro è lodevole e, lo diciamo con un pizzico d’orgoglio, riconosciuto ufficialmente nel contesto europeo (la società ha ricevuto il Premio Principe delle Asturie a Oviedo in Spagna nel 2005) al pari di altre istituzioni quali l’Alliance Française e il British Council. Ma tutto ciò non basta. È essenziale affiancare alla tenacia di chi opera nel settore anche strumenti normativi e amministrativi che manifestamente promuovano e difendano la lingua italiana. È pertanto auspicabile l’intervento delle più alte istituzioni italiane.  Non ci stancheremo mai di dirlo. La lingua è il primo elemento che fa parte del nostro patrimonio culturale. È pertanto doveroso proteggerla e valorizzarla. Un’occhiata ai cugini d’Oltralpe potrebbe aiutarci in tal senso. La Francia vanta, in effetti, una lunga tradizione in proposito. L’importanza della lingua, ad esempio, è stata riconosciuta, già dal 1992, finanche nel secondo articolo della Costituzione francese dove si dice che “La langue de la République est le Français” (La lingua della Repubblica [francese] è il francese).  Un modello da seguire, o almeno iniziative cui ispirarsi, possono poi essere recuperate in tanti altri casi. Un solo obiettivo va tenuto a mente: il nascere di un nuovo ibrido, l’Italinglish potrebbe anche esser bene accetto, ma ciò non significa abdicare ad uno dei ruoli primari di ogni società: preservare e rafforzare la propria specificità e identità senza il timore di esprimere il suo stato paritario alle altre lingue e tradizioni.

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