Il film racconta l’ossessione di Robert Ledgard, eminente chirurgo plastico. Quando la moglie muore, in seguito a un incidente automobilistico, Ledgard decide di concentrare tutta la sua dedizione sperimentale di scienziato sulla messa a punto di una pelle sostitutiva (un’epidermide più elastica e resistente, perfettamente compatibile con la pelle naturale umana). Per le sue sperimentazioni sceglie come cavia il ragazzo che ha tentato di violentare sua figlia; lo sequestra e lo opera cambiandogli sesso, obbligandolo così a indossare per sempre un’altra pelle. Nella trama delirante, e a tratti inverosimile, del racconto Almodóvar traspone maldestramente l’allegoria di Frankenstein. Il film si ispira al romanzo noir “Tarantola” di Thierry Jonquet, tradotto in Italia nel 2005 per Feltrinelli. Molto abilmente il regista sceglie di misurarsi con una delle tematiche più controverse e complesse del dibattito contemporaneo, quella legata al fragilissimo equilibrio dell’essere e dell’apparire: la fisicità come manifestazione dell’identità profonda (con tutti gli annessi e connessi della manipolabilità estetica e genetica). Con un occhio a Mary Shelley e uno a Hitchcock Almodóvar sforna la sua opera cinematografica forse più manierista. La pelle che abito si profila dichiaratamente come un meta-genere, condensando all’interno di un’estetica elaborata ed elegante elementi del melodramma miscelati a quelli del thriller e finanche a quelli dell’horror; questo gioco di linguaggi funziona solo in alcune scene, ma nell’insieme finisce per riavvitarsi con fallacia su se stesso. Un film a forti contrasti dove violenza e ironia si danno il turno attraverso imprevedibili colpi di scena. Ben incasellati trovano posto tutti gli ingredienti più tipici dell’estetica almodovariana: identità di genere, trasformismo sessuale, traumi che riaffiorano dal passato, ingombranti figure materne, possessività relazionale, feticismo, predilezione per le contingenze paradossali. Alla quasi unanimità la critica più intransigente bolla quest’ultima fatica del celebre regista spagnolo come un irrimediabile pasticcio o, se si preferisce, come l’ennesimo capolavoro mancato (stessa sorte dei tre o quattro film precedenti). Almodóvar senz’ombra di dubbio cita se stesso, gioca con le sue forme più collaudate, rimarca pleonasticamente i leit-motiv della sua estetica cinematografica; un citazionismo dichiarato, divertito, ma purtroppo non sempre efficace. Ne La pelle che abito Almodóvar ritaglia, utilizzando la macchina da presa alla stregua di un bisturi, una sorta di melo-horror-thriller fantasociale, inframezzandolo di una serie di piccole storie parallele che rimandano alla complessità delle relazioni umane contemporanee. L’icona di Antonio Banderas (il chirurgo Robert Ledgard) rivela connotati forse un po’ troppo sbiaditi. Al di là di certe forzature estetiche ciò che delude maggiormente in quest’ultima fatica di Almodóvar sono i mancati approfondimenti, quella mancata tridimensionalità che le tematiche in oggetto avrebbero potuto suscitare. Con ogni evidenza il risultato, in altre parole, non è all’altezza delle ambizioni a monte. Il regista tenta di allontanarsi da quelle dinamiche smaccatamente pop così presenti nelle opere precedenti, tenta di pervenire a un nuovo linguaggio per così dire transgenetico, non fa però che sommare le due cose, a discapito della fluidità narrativa. Finita la proiezione si esce dalla sala con l’amaro in bocca, con la nostalgia per quei capolavori realizzati dal Maestro tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. La pelle che abito resta comunque un film godibile e, al di là di tutto, un film d’autore. La pellicola è dal 23 settembre nelle sale italiane.
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