Se lo Stato bracconiere è il primo responsabile della grande estinzione valoriale, le dignità autonome sono le grandi sopravvissute.
Non scoppiano di salute però si reggono in piedi, aggrappate a una fierezza congenita, corroborate da un entusiasmo atavico dalle risorse inesauribili. Sebbene la posizione dell’uomo attuale nella scala zoologica sia quella del sapiens sapiens, le cose però nella pratica sembrano andare molto diversamente.
Millenni di conquiste sul piano sociale e individuale hanno dato come risultato quello che abbiamo tutti quanti sotto gli occhi: un profondo senso di inadeguatezza, una sensazione di perenne precarietà. Un destino comune lega le miserie dell’uomo medio e gli splendori delle personalità più brillanti; scaricatori di porto e primi ballerini si contendono la scena sul medesimo palcoscenico attorniati da una platea silente. Se giocassimo a carte scoperte, se deponessimo per un attimo le maschere non avremmo più bisogno di raccontarci la favoletta della civiltà. Le tecnologie ci hanno ripuliti dei fetori medievali, il progresso ha ingentilito i nostri costumi, il benessere ha gonfiato le nostre ambizioni, tuttavia la struttura portante della grande illusione civile è marcia e pericolante. Viviamo in una società che non riconosce i nostri meriti, che denigra i nostri talenti, che spegne i nostri entusiasmi, che ignora spesso e volentieri finanche i nostri bisogni primari. Più che come Persone o Cittadini siamo riconosciuti come consumatori o telespettatori, fagocitati negli ingranaggi sporchi della macchina sociale ben suddivisi in fasce di target. Il più delle volte dobbiamo procacciarci un ruolo e una posizione a morsi, con scaltra furbizia, forti del nostro atavico retaggio di carnivori. Viviamo in una società cieca e sorda, intimamente impenetrabile, finta in ogni piano del grattacielo. I dati sulla distribuzione della ricchezza, nel nostro Paese come in altri stati occidentali, basterebbero da soli a qualificare il presunto grado di civiltà di cui amiamo fregiarci.
Padroni e signorotti, ora come allora, regnano indiscussi sovrani su eserciti di schiavi e sottoposti; se fosse sopravvissuto il mecenatismo – pratica un tempo molto diffusa da parte di nobili ed ecclesiastici – quanto meno avremmo goduto delle sue elemosine, ma ahimè oggi anche questa consolazione ci è negata (a meno che non salti fuori che Ratzinger o Berlusconi, o chi per loro, stiano segretamente finanziando le nuove leve intellettuali sul fronte scientifico, artistico e letterario). Arte e Cultura non fanno più status, impietosamente soppiantate dalle nuove dottrine dell’high society (gentaglia da yacht, per intenderci).
Non è necessario scomodare sociologi o antropologi di grido per avere un quadro esaustivo della situazione. Lo ribadiamo, tutto è sotto gli occhi di tutti. Operai, impiegati, insegnanti, prostituti, commercianti, artisti… potremmo elencare tutto il repertorio dei mestieri (compreso il più diffuso, quello dei disoccupati) e il quadro generale non cambierebbe di una virgola. Dietro i suoi belletti, dietro le sue superfici patinate la società attuale rivela impietosamente il suo assetto di giungla; come in un vizio di forma l’errore si replica di generazione in generazione, ed è proprio quando crediamo di essere a un passo dalla svolta che tutto ripiomba esattamente al punto di partenza. C’è poco da scandalizzarsi, dirà qualcuno, siamo umani, siamo predatori nati.
È proprio per aggirare la nostra natura che ci siamo dati uno Stato, affinché ci garantisse un vero progresso, un vero ordine, una vera armonia. Grande assente, impenitente bugiardo, lo Stato si è sottratto da sempre ai suoi doveri di buon padre, preoccupato com’è di tutelare solo se stesso, a beneficio dei suoi vertici e delle sue immediate contingenze. Se non possiamo prendercela con l’uomo possiamo però prendercela con quest’organizzazione pseudo-monarchica che si è arrogata il compito di rappresentarci. È a questa combriccola (o casta, o setta) che dobbiamo puntare il dito, per quanto l’operazione si riveli del tutto inutile. Le proteste, si sa, lasciano il tempo che trovano. Uno Stato che non investe in cultura è più pericoloso e iniquo di un regime dittatoriale. Uno Stato che asseconda gusti e retrogusti dell’uomo medio non fa che promuovere e alimentare e legalizzare una sorta di ignoranza istituzionalizzata. Uno Stato che non si preoccupa della salute mentale, razionale ed emotiva della sua gente non solo compie un atto di imperdonabile irresponsabilità ma agisce in modo criminale.
Meno chiese e più biblioteche! Meno ecomostri costieri e più laboratori scientifici! Meno campi di calcio e più teatri! Meno centri commerciali e più piazze! Se gli architetti oggi farebbero bene a demolire, i politici dovrebbero invece costruire un autentico ponte di dialogo con le masse votanti (imparando a sentirsi essi stessi parte integrante della collettività); solo unendo le singole forze, solo concertando gli impegni si potrà pervenire a un qualche risultato degno di nota. D’altra parte, ci sono davvero poche probabilità che le cose cambino da sole, e vista la direzione di tendenza la debacle sembra ormai inevitabile. Chi non gode di privilegi, chi è esposto agli strali del mostrum contemporaneo e ne incassa dolorosamente ogni singola sferzata, ha davanti agli occhi una visione più nitida del quadro generale e non può che esserne spettatore. Auguriamoci che chi ha i mezzi, invece, li usi, si adoperi nel suo piccolo nell’interesse di tutti.
Qualcuno un giorno disse che le grandi rivoluzioni partono dal basso, dall’interno, dalla consapevolezza profonda. La Costituzione sembra un libro di fantascienza, e così possiamo leggerla nel nostro Paese. Il copione che ci hanno assegnato è di tutt’altra natura, pieno zeppo com’è di paradossi, di orrori ortografici, di clamorose sviste e di frasi prive di senso. Chi garantisce cosa? Chi aiuta chi? Chi interviene? La stasi è pressoché completa, un elettrocardiogramma piatto. Ogni tanto qualche voce emerge fuori dal coro ma poi il frastuono riprende il sopravvento. Se vivessimo in una società civile avremmo espressioni diverse, ci guarderemmo in un modo diverso, respireremmo un’aria diversa.
All’indomani del Rinascimento ci si era prospettata una maestosa scalinata verso il cielo, un divenire dell’uomo al centro del mondo, ma chissà perché da allora c’è stata solo una discesa rovinosa, un capitombolare inarrestabile dritti dritti nel ventre deforme della società dei consumi. Diremmo forse un’inesattezza se dicessimo che tra le nuove generazioni un Sebastiano Vassalli gode di minor notorietà e considerazione rispetto a un Federico Moccia? Sono entrambi contemporanei, fanno lo stesso mestiere (diciamo così), con ogni evidenza però il secondo è più promozionato del primo (gli organi televisivi e di stampa ci danno giù pesante per imporlo sul mercato). A beneficio di chi? A nutrimento di quale intellighenzia? E ancora… In prima serata negli ultimi trent’anni ci è finito più Visconti o Vanzina?
Uno Stato costituzionale che si fregia di occuparsi del bene psicofisico dei suoi cittadini dovrebbe adoperarsi per ribaltare (o quanto meno pareggiare) questo triste dato oggettivo. Ci risultano forse in atto sforzi concreti o proponimenti costruttivi in questo senso? Le nobili arti liberali, un tempo baluardi della società civile, sono state progressivamente confinate in settori a tenuta stagna, in comparti specialistici, in nicchie e rubrichette, come se rappresentassero fenomeni trascurabili cui riservare di tanto in tanto un contentino. In prima pagina sui rotocalchi generalisti e nelle ore calde dei palinsesti televisivi si continua a promuovere lo scempio. Raccogliamo quotidianamente i frutti bacati di questa sterile semina.
A ciò va aggiunto che in Italia la percentuale della popolazione (e dei laureati!) che legge abitualmente è davvero bassissima, quasi praticamente nulla. La tendenza più diffusa è quella di laurearsi per soli fini impiegatizi o carrieristici, in barba alle più nobili motivazioni che animavano i percorsi scolastici di un tempo. E d’altra parte, come dargli torto? Le nuove matricole non superano esami ma guadagnano crediti (un meccanismo analogo governa le logiche delle ricariche telefoniche, delle carte prepagate e dei giochi lottomatici d’azzardo legalizzati).
Ci sarebbe infine da domandarsi se sia mai esistita un’epoca storica, un’age d’or ben precisa nella spazio e nel tempo, dove le arti rivestivano un vero ruolo di preminenza del tessuto sociale. Forse no, forse sì. La tentazione di rispondere Grecia è forte ma non ci pronunciamo. È bello immaginare che sì, questa stagione c’è stata realmente, ed è coincisa con l’acme più florida mai raggiunta da una civiltà. È in questa direzione che dovremmo muoverci, confidando in una propulsione a lunga gittata ed eludendo ogni freno utopistico; è questa la direzione che uno Stato civile dovrebbe indicarci: solo su questi presupposti sarà possibile parlare ancora di dignità. Oggi sappiamo che se un lusso c’è è la dignità. Merce rara, signori. Bottino di pochi artisti e di altre quattro brave persone.
La dignità è una specie di strano animale che sopravvive a stento in un habitat inospitale, ed è un miracolo evoluzionistico se non si sia già estinta. Sopravvive nella speranza, nella fiducia che sempre si ripone nell’uomo, sopravvive nell’arte e in chiunque si mantenga ben disposto verso gli altri, a debita distanza da ogni forma di prevaricazione. La dignità è una risorsa autonoma, il vero tesoretto di Stato. Senza dignità non c’è protagonismo, non c’è interazione e non c’è cooperazione. Se chi ci governa non si fa garante in primo luogo delle singole dignità, altro non è se non una dittatura, poiché la vera civiltà si fonda sul riconoscimento della persona e sulla valorizzazione della sua unicità. Questa piccola parentesi di autoanalisi suona oggi quanto mai doverosa. Non prendiamoci in giro. Lo scenario è preoccupante. Siamo tutti responsabili, tutti fottutamente responsabili. Abbiamo nature vanesie e competitive, siamo presuntuosi e indifferenti. Viene prima il nostro tornaconto e la nostra soddisfazione. All’occorrenza sappiamo apparire prodighi e ben disposti, ma è tutta apparenza.
Ogni grande rivoluzione deve partire dall’interno, da una profonda ridefinizione individuale, solo così poi il gioco di squadra potrà fare il resto. Dobbiamo sforzarci di cambiare, dobbiamo imparare ad ascoltare, dobbiamo sviluppare una più autentica curiosità verso gli altri. Tutte le dignità sono confinanti. Non c’è separazione tra una dignità e l’altra, c’è solo dialogo e interscambio empatico. Dignità significa metterci la faccia, metterci il nome e cognome, metterci abnegazione ed esperienza. La dignità è il solo patrimonio su cui dovremmo investire, su cui lo Stato dovrebbe investire, su cui la scuola dovrebbe investire. Solo riformulando in toto le regole e le dinamiche della società contemporanea potremo pervenire a un autentico progresso civile. Già da tempo si auspica a un nuovo Rinascimento, dove Arte, Letteratura e Scienza riconquistino finalmente il podio, detronizzando la vergognosa informazione calcistica propinataci quotidianamente dai telegiornali di Stato. Un nuovo Rinascimento, un nuovo Illuminismo che pongano la dignità dell’uomo al centro del dibattito sociale. Utopie? Ai posteri l’ardua sentenza.
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 8 – Settembre 2011
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