di Massimiliano Sardina
“L’arte non può essere moderna,
l’arte è sempiterna.”
Egon Schiele, 1912
Lo Young British Artist Damien Hirst è al momento uno degli artisti più chiacchierati e controversi del panorama contemporaneo internazionale. Nell’ultimo ventennio la sua ricerca verte, non senza un certo compiacimento, su tutto quanto concerne la finitezza e la condizione effimera che impietosamente accomuna persone e cose. Dalle opere-choc esposte alla Biennale di Venezia del 1993 (pecore, mucche e squali vivisezionati e immersi in vasche di formaldeide) fino ai celebri object-skull della produzione più recente il nome di Damien Hirst non ha mai cessato di fare notizia. L’adozione di un linguaggio estremo gli ha assicurato la più vigile e tempestiva attenzione da parte dei media, degli addetti ai lavori e, più in generale, di frange specifiche dell’opinione pubblica (perlopiù animalisti e militanze religiose).
Hirst non usa mezzi termini e va dritto alla questione che, di volta in volta, intende sollevare. Utilizza, dicevamo, un linguaggio iconico crudo, non contaminato da metafore cautelative o da censori vedo-non vedo; lavora in primo luogo sull’effetto destabilizzante che solo la visione a primo impatto può garantire, espone la sua merce in una vetrina lustra e ben illuminata, la consegna allo sguardo dell’osservatore con lucida e trasognata violenza. Se a distanza di vent’anni si parla ancora così animatamente di lui è in buona parte dovuto a queste astute e collaudate dinamiche di catalizzazione mediatica (Cattelan, da questo punto di vista, gli dà filo da torcere). Inquietante musa ispiratrice e ossessivo leit-motiv della ricerca di Hirst è quella emarginatissima dark-lady che la società dei consumi tenta quotidianamente e con ogni mezzo di seppellire sotto metri e metri di avveniristici optionals e luccicanti status-symbol capitalistici. Hirst riesuma l’ospite sgradito, lo mette a capotavola e invita tutti i commensali a prendere posto. Crea così delle neo-Vanitas, dei Memento mori contemporanei che in parte si fanno eredi di quei propositi educativi ed edificanti (primo fra tutti: Ricordati che devi morire!) tanto cari a certa pittura olandese del XVII secolo.
Le nuove Vanitas di Hirst escono dall’oscurità barocca, abbandonano candele, putti, clessidre e petali vizzi della tradizione di genere e si riformulano attraverso una luce nuova, sfavillante. Il Barocco però è solo eluso in apparenza, poiché è dichiaratamente sotteso in ogni aspetto dell’operazione hirstiana (ci riferiamo non tanto alla preziosità dei materiali impiegati, o alla loro iperrealisticità, quanto a quella necessità di stupire e di abbagliare tipiche dell’iconografia per l’appunto barocca). L’occhio di Hirst è insieme crepuscolare e scientifico. È egli stesso, infatti, a definire la Scienza come la vera nuova religione. Il suo tratto è chirurgico, medico, più incline a indagare l’interiora che l’esteriora. Negli animali tagliati a metà (Father, Away from the Flock, etc) e nei dipinti-radiografia (Human skull in space, The Head of medusa, Skull with Big scissors) gli strumenti del mestiere non sono quelli dello scultore e del pittore, bensì quelli dell’imbalsamatore, del tassidermista, del dottor Frankenstein (e nelle opere più recenti For the Love of God e For Heaven’s sake dovremmo aggiungere… del gioielliere). Hirst riflette sulla Morte e la riflette attraverso il Corpo residuo. Il linguaggio-choc non ammette intermediari: il cadavere va esibito quale simulacro dello pneuma assente, proprio perché laddove non c’è più Vita non può che palesarsi la carcassa esanime della Morte. L’animale segato, aperto come una mela, ha tutto il sapore di una rivelazione.
Facile spostare l’asse verso il primate o, se si preferisce, verso l’essere umano. Sappiamo quello che abbiamo dentro ma non vogliamo vederlo, facciamo finta di non saperlo, al contrario anzi celebriamo la pelle, tutto ciò che è epidermico ed esteriore. Hirst infrange il tabù, ma fa un lavoro pulito, senza ricorrere allo splatter. Apre lo scrigno e fa vedere quello che c’è dentro, né più né meno. Nessun esorcismo, nessun tentativo di adulterazione. Anche nelle installazioni farmaceutiche si ripropone il discorso dell’interdipendenza tra Vita e Morte (il farmaco chimico-alchemico, l’elisir, la panacea, quella necessità tutta umana di allontanare e ritardare il più possibile il momento del trapasso). Con i teschi-gioiello Damien Hirst si spinge ancora oltre e confeziona veri e propri jouet de luxe, associando due elementi di per sé agli antipodi: le ossa e i diamanti (nella nostra cultura, infatti, assegniamo alle prime un valore di caducità e di marcescenza, mentre ai secondi consegniamo tutta l’eternità concepibile). La commistione genera un effetto perturbante che, inutile dirlo, si presta a una serie nutrita di letture semantiche. For the Love of God, insieme a La Nona Ora di Maurizio Cattelan, può tranquillamente assurgere a opera-manifesto dei nostri tempi. Dice tutto e dice nulla o, come direbbe qualcun altro, parla a sproposito come tante altre opere astute che fanno bella mostra di sé negli ingranaggi dei media.
Lo sfarzosissimo cranio è stato esposto a Firenze fino alla metà di giugno, dove più di duecentocinquantamila persone hanno avuto modo di ammirarlo in tutte le sue sberluccicanti sfaccettature. L’opera, come era prevedibile, ha già raggiunto quotazioni da capogiro. Hirst, come molti suoi colleghi, è ben inserito nelle maglie del mercato, in quel gioco a sei zeri ordito da gallerie, case d’asta, collezionisti e investitori vari. L’operazione è dichiarata, come vogliono le nuove regole di tutto il sistema che ruota intorno al business dell’arte contemporanea (e qui non andiamo oltre).
Tema abusatissimo quello dei teschi, specie in questi ultimi anni (si vedano: Very hungry God, 2006, di Subodh Gupta; Al poeta morto, 2007, di Paolo Maione; etc.). Hirst però è riuscito a non cadere nella banalità e a offrire qualcosa di veramente nuovo e di indubbiamente interessante. Che lo vogliamo o no i connotati dell’homo sapiens-sapiens contemporaneo ben si confanno a quelli del teschio diamantato, la riflessione è specchiata, per nulla deformante, anzi fin troppo fedele. Possiamo interpretare For the Love of God come il trionfo dell’uomo contemporaneo (sempre più longevo, tecnologico e pluriaccessoriato) sulla sua stessa natura di semplice essere vivente in balìa dei capricci del caso (o del destino, se si preferisce); possiamo interpretarlo altresì come una sottolineatura dell’umana transitorietà, o come un’accesa critica all’ingorda voracità del capitalismo, o come il trionfo dell’arte sempiterna sulla miserabile ciclicità biologica, o ancora (non ce ne voglia l’artista) come un volgarissimo oggetto kitsch.
Le interpretazioni e le varie letture semantiche come vedete si sprecano. For the Love of God è un po’ la summa di tutta la ricerca di Damien Hirst, e sembra racchiudere in sé, strette tra le minuziose incastonature, tutte le altre opere prodotte dall’artista nell’ultimo ventennio; la Morte qui risplende e trova la sua icona definitiva, la sua maschera e la sua epifania.
Massimiliano Sardina
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