di Maria Isabel Giabakgi
Quando il 1° aprile del 1906, su invito del Collegio Nazareno di Roma, fu chiamato a tenere una conferenza sul canto XXIII del Paradiso, Antonio Fogazzaro era già da tempo un rispettabile inquilino della dimora del romanzo borghese, a partire dalla quale aveva però provveduto a scavare una trama di profondi, segreti corridoi comunicanti con altri domicili neospiritualisti, modernisti, evoluzionisti, neogotici ritenuti all’epoca senz’altro meno rispettabili. Il giorno della sua lectura dantis ancora non sapeva che la sua ultima fatica letteraria, Il santo, avrebbe conosciuto di lì a poco l’umiliazione della condanna all’Indice. Fogazzaro lettore di Dante rimase pressoché ignorato dalla stampa coeva e dalla critica successiva. In realtà, sin dal commento all’episodio dantesco di Paolo e Francesca, compreso in uno scritto sul Manzoni del 1887, Fogazzaro addita nell’amore per Beatrice una vicenda esemplare, tale proprio perché dal Paradiso terrestre il pellegrino si leva al cielo fremendo per quel che d’umano, di femminile ancora permane in lei e che il processo di trasfigurazione allegorica non è riuscito a sottrarle, in pieno accordo con quella che si rivelerà la concezione fogazzariana dell’amore. È logico perciò che commentando il XXIII canto del Paradiso egli focalizzasse quasi esclusivamente l’irresistibile attrazione di Dante verso la sua donna, il suo sentirsi lontano da Cristo, la figura tutto sommato algida e scialba del Salvatore. Tommaso Gallarati-Scotti rileva come già in Malombra la figura di Marina fornisca alimento alle inquietudini morbose e sensuali di Corrado Silla, incarnando la somma delle caratteristiche negative della donna «illuminata dai bagliori di un orgoglio demoniaco e di una follia perversa» che si trasforma in uno strumento di fascino, rivelandoci significativamente come Fogazzaro, all’inizio del suo percorso narrativo abbia inteso «concepire la donna, quale potenza delle tenebre, tentatrice, non Beatrice». Il Gallarati aveva inoltre notato come, nel Mistero del poeta, l’autore si fosse invece impegnato a dar vita a una nuova Beatrice. Nel romanzo-diario di un poeta italiano che conosce e ama intensamente una donna tedesca, Violet Yves, a lui promessa sposa, la cui vicenda vede il suo culmine drammatico nella morte della protagonista, sono inseriti numerosi frammenti lirici, testimoni e segni dell’ispirazione sollecitata dal primo incontro, dalle gioie, dalle speranze, dalle delusioni, dalle fantasie oniriche che celerebbero un intendimento neostilnovista, debitore anche in certi aspetti formali verso la Vita nova di Dante: «Sognai di salire da non so quale abisso per la potenza di una voce soave che diceva in alto, con accento straniero, parole incomprese. Mi svegliai piangendo, in preda ad un orgasmo che mi durò parecchie ore, pieno di questa irragionevole idea, che la voce udita in sogno esistesse veramente». Sembrerebbe, dunque, che con la figura di Miss Violet lo scrittore riesca ad afferrare finalmente la sua Beatrice estetica. Ma dopo la pubblicazione di Piccolo mondo antico qualcosa sopraggiunse a minare l’ideale “comunione” biografico-artistica tra Fogazzaro e Dante. Fra quello che è giudicato il capolavoro del Vicentino e Piccolo mondo moderno «vi è una silenziosa, nuova, oscura esperienza […] un soffio di vento avverso» che non manca di riverberare di sé il nuovo romanzo. Dovette trattarsi, ovviamente, del riflesso autobiografico di una presenza femminile inquietante, «dai grandi occhi magnetici», dall’identità incerta[1], penetrata subdolamente nell’ultimo scorcio di vita dello scrittore, sulla quale sarebbe germinata l’ambigua figura di Jeanne Dessalle, destinata a vivere attraverso Piccolo mondo moderno, Il santo e a comparire un’ultima volta, fugacemente, in Leila. Protagonista del Santo (1905) è sempre Piero Maironi, che si è ritirato a vita ascetica e fa il giardiniere in un convento benedettino, prendendo il nome di Benedetto. Ancora si fanno sentire le tentazioni della passione per la Dessalle, ma egli le brucia nella sua ansia di mistico proselitismo, nei suoi sogni di una Chiesa riformata in senso evangelico e modernista, che lo spingono fino ad un drammatico colloquio con il papa al quale rinfaccia l’immobilismo della Chiesa e la brama di potere, l’avarizia che vi allignano. Benedetto morirà con l’illusione di aver convertito Jeanne, giunta a raccoglierne le parole estreme. Quella che avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni di Fogazzaro, l’opera destinata a recare un contributo al rinnovamento della Chiesa si rivela come la più deludente per la “fronda” modernista più combattiva. Il macerante conflitto fra la carne e lo spirito, in cui si dibatte il protagonista, non ha nulla a che vedere con la nuova sensibilità religiosa militante. Nel frattempo, attorno al romanzo si moltiplicavano le polemiche e apparivano, o stavano per apparire, traduzioni in tutte le lingue, facendo di quel libro «disturbatore di coscienze» – come ebbe a definirlo il Gallarati-Scotti – uno dei più grandi successi librari di quegli anni.
Quanto all’eroina negativa del romanzo, ella è una medusa che pietrifica col suo «gelo arido», offre un amore che è ostacolo alla conoscenza suprema, trascinando il protagonista, sia pure per un istante, sull’abisso del sospetto dell’assenza di Dio. Per fare questo Fogazzaro ricorre ad un modello letterario sin troppo noto, scompaginandone però l’intrinseco significato. Quando Jeanne Dessalle, accompagnata dall’amica Noemi si mette in cerca dell’antico amante, ormai consacratosi a Dio, si slancia in una frenetica ricerca che la conduce ai piedi della rocca di Subiaco dove i sapienti tocchi paesaggistici di Fogazzaro trasformano il luogo sacro in uno scenario orrorifico. Quella che avrebbe dovuto essere una «miniera di santità», diviene per Jeanne il “mostro” di pietra che ha fagocitato il suo Piero: la penetrazione nel monastero assume i toni parossistici di una vera e propria discesa agl’inferi. La lunga teoria di arredi sacri e le stesse strutture architettoniche dell’austera costruzione, vengono rivisitati alla luce di un feticismo macabro:
Né l’una né l’altra sapevano qual via facessero per l’aria morta e fredda, per le ombre mistiche, per i chiarori giallognoli pioventi dall’alto, per gli odori di sasso umido, di lucignoli fumosi, di arredi vecchioni, per le visioni di cappelle, di grotte, di croci negli sfondi bui di scale perdentisi in fuga, a paro con le loro volte acute, giù verso caverne inferiori, di marmi color di sangue, color di notte, color di neve.
Il Vicentino, in continuo contrasto tra l’allettamento dei sensi e il desiderio di sublimazione dei rapporti umani in “unione d’anime” marca le sue pagine di confessioni amorose con una traccia torbida; scorie che legittimano ed esplicitano la sua costante aspirazione alla purificazione. È quindi interessante intercettare lo scrittore proprio ai margini imprecisi di un sentimento amoroso che nasce con la spinta a dilatarsi in vastissimi orizzonti spirituali, ma che si conserva fra brividi segreti ed arcane seduzioni. Nel concepire l’epilogo della storia di Piero e Jeanne, Fogazzaro percorre una strada intertestuale che conduce, neppure troppo velatamente, ad un modello che gli era particolarmente caro. Non si pretende di verificare, in questa sede, con quanta coerenza l’attività critica di Fogazzaro si sia adeguata alla poetica; né del resto ha molto senso interrogarsi sulla perfetta corrispondenza fra produzione artistica e ripensamento critico in un autore, giacché l’originalità dell’“appropriazione” di un classico e del suo riuso prescinde da un eventuale scarto fra i due piani. Proprio alla trasfigurazione allegorica della protagonista femminile del romanzo è dedicata la straordinaria pagina che descrive lo stato di allucinazione di Benedetto morente, in preda ad un fortissimo accesso di febbre. Potrebbe, a nostro avviso, esser lecita la sensazione di trovarsi di fronte ad un processo di riscrittura, in chiave sostanzialmente rovesciata, della celebre visione dantesca che occupa gli ultimi canti del Purgatorio. In particolare, la fogazzariana «visione d’inganno», sembrerebbe, secondo quest’ipotesi, intessuta di una fitta rete di rimandi intertestuali – di matrice allegorica – ai canti XXVIII, XXIX e XXX, quelli, cioè, dedicati alla preparazione dell’epifania di Beatrice. Molto, a cominciare dall’onirica struttura architettonica che separa Benedetto da una foresta, richiamerebbe il modello dantesco. Vale senz’altro la pena riportare per intero la pagina relativa all’incubo del protagonista:
Benedetto, pensando a don Clemente, passò dalla quiete della sua contentezza nel sopore e nel sogno, dove discesero gli spiriti mali a comporgli con le ultime parole del professore[2] una visione d’inganno. Egli si vide in faccia un colossale muraglione di marmo[3], incoronato di ricche balaustrate, tutto bianco di luna. Là in alto, dietro le balaustrate, agitavasi al vento una densa foresta[4]. Sei scale, pure fiancheggiate di balaustri, scendevano per isghembo, tre da sinistra e tre da destra, sulla fronte del muraglione, terminando a sei ripiani sporgenti. Le balaustrate superiori erano partite da pilastrini che reggevano urne. Ed ecco fra le urne, a mezzo di ciascun intervallo, apparire come in danza, nello stesso istante, nello stesso abito celeste scollato, nello stesso grazioso atto del capo, sei giovani donne bellissime; e con lo stesso armonioso gesto delle braccia ignude tendere a lui dall’alto, piegando il busto, sei scintillanti coppe di argento. Si ritraevano quindi a un punto dalla balaustrata e a un punto ricomparivano sulle sei scale, le scendevano uguali velocemente, e, toccati i ripiani, a un punto riporgevano graziose il busto, gli tendevano, guardandolo con una gravità strana, le sei coppe scintillanti. Dalle loro labbra non usciva parola e tuttavia gli era evidente che le sei giovani gli offrivano nell’argento un liquore di vita, di salute, di piacere. Egli sentiva di averne uno sgomento morale angoscioso e tuttavia di non poter levare lo sguardo dalle coppe scintillanti, dai bei volti gravi, chini sopra di esse. Si sforzava di chiudere gli occhi e non poteva, di levarsi e non poteva, d’invocare Dio e non poteva. Le sei danzatrici piegarono a un punto le coppe verso di lui, sei mobili nastri di liquore rigarono l’aria[5]. «Come io» pensò il dormente scambiando persone nella memoria turbata «a Praglia.» E tutto scomparve, si vide davanti Jeanne. Ritta in piedi, chiusa nel mantello verde foderato di skunk[6], ombrata il viso dal grande cappello nero[7], ella lo guardava[8] come lo aveva guardato a Praglia nel momento del primo incontro. Ma stavolta il dormente vide una rispondenza fra la gravità di quello sguardo e la gravità dei volti delle danzatrici, vide con lo spirito la parola silenziosa delle sette anime: povero uomo, tu ora conosci il tuo doloroso errore, tu ora sai che Dio non è. La gravità degli sguardi non era che tristezza di pietà. Le coppe della vita, della salute e del piacere gli erano offerte discretamente e senza gioia come a uno ch’è nel lutto, che ha perduto ogni cosa più cara; come il solo povero conforto che gli rimane. Così Jeanne offriva il suo amore. E il dormente fu invaso da questa presunta evidenza nuova che Dio non è. Era una vera e propria sensazione fisica, un gelo diffuso per tutte le membra, movente lento al cuore. Egli prese a tremare, a tremare, e si destò[9].
Al di là di dettagli numerologici e cromatici più o meno corrispondenti, anche le «sei giovani donne bellissime» che appaiono a Benedetto «come in danza», vestite di un «abito celeste scollato», costituirebbero una chiara citazione – sia pur percorsa da un fremito nuovo di sensualità – delle Virtù che accompagnano il carro allegorico e preparano l’avvento di Beatrice[10]. Le sei figure femminili porgono con «armonioso gesto delle braccia» al moribondo «sei scintillanti coppe di argento» [11] contenenti «un liquore di vita, di salute, di piacere», disponendolo all’apparizione di Jeanne Dessalle. La donna amata da Maironi, vera e propria controfigura perversa di Beatrice, viene dunque in sogno a Benedetto per spalancargli le porte blasfeme dello scetticismo[12]. È, inoltre, probabile che le presenze numeriche, in questo squarcio visionario, non siano casuali. È curioso notare come la parola-chiave “sei” ricorra nove volte, quasi a richiamare il numero-simbolo di Beatrice nella Vita nova, e come l’apparizione della Dessalle sia preceduta dall’elencazione di tre elementi simbolici – i ripiani sporgenti della struttura marmorea, le danzatrici, le coppe – tutti in numero di sei. Dunque una sinistra, demoniaca luce a riverberare questa Beatrice decadente, che segna definitivamente uno iato tra il modello dantesco e il suo inseguitore veneto, mai del tutto emendatosi dai suoi languidi sensualismi e dalle ambiguità ideologiche. È pur vero che l’alta valenza simbolica di questa pagina, ben lontana dall’essere mero divertissement letterario, è stranamente sfuggita ai commentatori di Fogazzaro, perlopiù preoccupati di dimostrare la funzione “trattatistica” e programmatica del Santo, di asserirne frettolosamente la sostanziale illetterarietà. Invece la figura di anti-Beatrice incarnata dalla Dessalle, non solo, come visto, trova giustificazione nelle pieghe dell’autobiografia dello scrittore vicentino (con tutte le conseguenze desumibili, giusta l’ormai appurata importanza del fatto autobiografico nella produzione fogazzariana), ma trova un parziale riscontro anche nella rimeditazione critica del testo dantesco, nell’insistenza su una Beatrice obliteratrice dei sensi. Di là dall’autorevolezza del modello letterario dantesco, il recupero di un paladino storico del rinnovamento della Chiesa, sia pur in seno all’ortodossia, fustigatore supremo dei vizi del clero, altro non sarebbe se non un episodio del variegato, complesso fenomeno del dantismo otto-novecentesco, dal quale anche Fogazzaro avrebbe tratto alimento per la costruzione di quel «neoguelfismo socialistico» che sprezzantemente gli attribuiva Benedetto Croce.
Maria Isabel Giabakgi
[1]
[1] Si tratta, probabilmente, di Jole Moschini Biaggini, deceduta il 21 ottobre 1905.
[2]
[2] Il medico che poco prima lo aveva visitato, dichiarandolo in fin di vita.
[3]
[3] Molto, a cominciare dall’onirica struttura architettonica che separa Benedetto da una foresta, richiamerebbe il modello dantesco: «Noi venimmo a piè del monte; / quivi trovammo la roccia sì erta, / che ’ndarno vi sarien le gambe pronte», Pg., III, vv. 46-48. Ma sin da queste prime battute, vi è nella visione di Benedetto un senso d’oppressione e d’impotenza estranee alla descrizione dantesca, anche se, la partizione della muraglia in “sei ripiani sporgenti” potrebbe adombrare la scansione in “cornici” del Purgatorio.
[4]
[4] «La divina foresta spessa e viva», Pg., XXVIII, v. 2, ma anche «…e ’l suon de la foresta», v. 85, appena mossa da «Un’aura dolce…», v. 7. Come si noterà, anche in questo caso, la foresta dantesca presenta aspetti di letizia e serenità, laddove il corrispettivo paesaggistico del sogno di Benedetto è “agitato” dal vento ed inaccessibile.
[5]
[5] I candelabri danteschi «lasciano dietro a sé l’aere dipinto, / […] di sette liste, tutte in quei colori / onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto», vv. 74-78.
[6]
[6] «donna m’apparve, sotto verde manto», Pg., XXX, v. 32.
[7]
[7] Anche Beatrice non è immediatamente riconoscibile: «Tutto che ’l vel che le scendea di testa, / […] non la lasciasse parer manifesta», vv. 67-69.
[8]
[8] Cruciale anche lo “sguardo” della donna: «drizzar li occhi ver’ me…», Pg., XXX, v. 66.
[9]
[9] Fogazzaro, Il santo, cit., pp. 450-452.
[10]
[10] «Tre donne in giro da la destra rota / venian danzando…», cfr. Pg, XXIX, vv. 120-132.
[11]
[11] In Dante gli strumenti che annunciano la Salvezza, di cui Beatrice è “figura”, sono «…sette alberi d’oro / […] sì com’elli candelabri apprese», vv. 43-50.
[12]
[12] Gallarati annoterà nella Vita di Antonio Fogazzaro (1920) che lo scetticismo di Jeanne Dessalle «è assai più profondo e radicale; è lo scetticismo della donna di mondo, non legata a nessun grande interesse, incapace di larga simpatia umana, abituata a sentirsi adorare come una “sirena”, non amare come un’anima».
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