di Giuseppe Maggiore
Sembrano per sempre dissipate nell’oblio dei tempi, quando a un tratto riaffiorano, dietro qualche input, o condizione favorevole venutasi intanto a creare. Forse non erano mai morte; stavano solo in una sorta di stato d’acquiescenza, d’ibernazione, da dove riemergere per continuare a parlare, raccontare la loro storia, portare l’antica eco di popoli e culture lontane nel tempo; forse perché il loro messaggio, nonostante tutto, conserva ancora inalterata la sua valenza. Tradizioni dure a morire, che seguono le loro logiche, le loro alchimie… Se ne può ripercorrere il processo andando a ritroso nel tempo, fino a perdersi nell’arcano; possiamo ricostruirne una ragion d’essere, rischiando di perderci nella nebbia di ipotesi, interpretazioni, congetture. Al pari di certe frasi idiomatiche, locuzioni, modi di dire propri di ciascun dialetto – intraducibili, insostituibili, impossibili da rendere con egual efficacia anche dalla più ricca delle grammatiche – vi sono storie possibili solo nella dimensione del mito e atti di fede esplicabili sono in certi rituali collettivi (spesso diversissimi, se non unici; spesso bizzarri e incomprensibili). È nello spirito della comunità che un dato credo religioso assume un carattere collettivo; certi simboli e certi riti hanno la loro ragion d’essere in quel saper fare da collante, da punto di riferimento insostituibile nel quale tutti – o quasi – possano riconoscersi. Il sociologo statunitense Robert Park, in The city, 1915, ci dice: “La città è qualcosa di più di una congerie di singoli uomini e di servizi sociali (…) La città è piuttosto uno stato d’animo, un corpo di costumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti organizzati entro questi costumi e trasmessi mediante questa tradizione”. Nella storia di un popolo (che è sempre storia di più popoli) e delle sue molteplici vicende affonda la “materia oscura” fatta di usi, costumi, tradizioni. Essa si tramanda di padre in figlio, di generazione in generazione, e semmai un giorno arriva ad estinguersi, ciò accade in virtù di leggi e tempi propri: è la stessa comunità che ne fa uso a decretarne prima o poi la scomparsa o la trasformazione. Tuttavia, esistono anche dei fattori che possono in vario modo influenzarle, correggerle, orientarle, se non addirittura ostacolarle, come nel caso di interventi da parte delle autorità civili e/o religiose. Sul vasto fronte delle tradizioni popolari a carattere religioso, potremmo stilare un lungo elenco di episodi che li hanno visti di volta in volta entrare in collisione con la dottrina ufficiale della Chiesa; la convivenza tra sacro e profano non sempre ben si armonizza alle esigenze di culto di cui l’autorità ecclesiastica si fa garante. In Sicilia, in una piccola realtà di provincia, c’è un caso che assume in tal senso un valore emblematico: Palagonia (CT), diocesi di Caltagirone.
L’anno 1992 il vescovo Vincenzo Manzella, munito dei documenti del Sacro Concilio ed in attuazione a quanto disposto dalla Conferenza Episcopale Siciliana del 1968, avvia una tenace azione disciplinare nei confronti della ricca congerie di tradizioni popolari legate alle ricorrenze religiose dei vari comuni della diocesi calatina. Le nuove disposizioni vennero recepite in vario modo dalle comunità; ovunque si ebbero manifestazioni di malcontento più o meno accentuate, comunque risoltesi in gran parte pacificamente grazie alla mediazione dei parroci che esortavano i rispettivi fedeli al principio dell’ubbidienza nei confronti del proprio vescovo. Le prime radicali modifiche riguardarono le festività patronali, in particolare: riduzione della durata delle processioni e relativo divieto di soste nelle varie chiese durante il loro percorso, nonché il divieto di affiggere ex-voto in oro e denaro addosso ai simulacri. Tali prescrizioni non trovarono eccesive ostilità, ma nel caso di Palagonia e della sua S. Febronia le cose andarono diversamente. Da sempre questa città ha manifestato una certa indolenza nei confronti dell’autorità – sia essa civile, militare o religiosa – non stupisce pertanto la sua puntuale reazione. Del resto, proprio la festa dei palagonesi (che peraltro all’epoca non aveva nemmeno una data fissa) risultava essere quella più penalizzata dalle disposizioni vescovili: venivano di fatto aboliti alcuni dei momenti più salienti dei festeggiamenti (i pellegrinaggi nelle contrade Coste, Nunziata e Santuzza) che, ad onor del vero, in più occasioni davano luogo ad avvenimenti che poco o nulla avevano a che vedere con il genuino spirito “religioso” della festa (manifestazioni di mero esibizionismo, ubriacature, rinfreschi e spettacoli pirotecnici in cui i vari commercianti omaggiavano più il proprio egocentrismo che la Santa); l’apice di tale degenerazione si aveva fin dalla sera della vigilia, quando, finita la rappresentazione scenica della celebre Spaccata ‘o pignu, la chiesa madre diventava scenario di una vivace baraonda nella quale non mancavano risse e bestemmie, a fare da corona al fercolo della Santa Patrona. L’allegro tenore era caratterizzato anche dai temi eseguiti dalle bande musicali (si andava dal Ballo del qua qua al Mi scappa la pipì…) sulle cui note i bravi e devoti portatori facevano ballare il sacro fercolo di S. Febronia. Il tutto sotto lo sguardo compiacente dei politici di turno (i quali, facendo degnamente proprio il motto Panem et circenses strumentalizzavano la festa a fini elettorali) e dell’immensa folla di fedeli (che poi, finito lo spettacolo, si defilavano lasciando che il fercolo dell’amata Patrona durante le processioni gironzolasse in lungo e in largo per la città, accompagnato soltanto dal parroco, dai membri del comitato e dalla banda musicale).
Di fronte a tale malcostume, appare dunque comprensibile l’intervento del vescovo e, d’altra parte, scontato anche che i pii palagonesi – in ossequio alla loro tradizionale indole ribelle – tentassero con ogni mezzo di mantenere lo status quo: l’anno 1992 si tenne a Palagonia un lungo ed estenuante braccio di ferro tra le parti, in quella che venne definita dagli organi di stampa come “la festa dei manifesti” (ogni giorno, infatti, ne spuntavano di nuovi affissi ai muri della città, ora da parte del sindaco, ora del comitato, o ancora di gruppi spontanei di devoti); un acceso confronto che passava anche attraverso minacce aventi come destinatari i sacerdoti e lo stesso vescovo. Tuttavia, alla fine prevalse il buon senso – o meglio, il pugno fermo del Manzella, il quale dal canto suo arrivò a palesare tra l’altro la messa ai sigilli della cappella di S. Febronia; minaccia, quest’ultima, che provocò la scesa in campo di una folta componente di donne popolane, le quali si fecero schermo davanti al fercolo al fine di impedire ogni ulteriore abuso da parte dei facinorosi devoti. Sistemata l’annosa questione della festa patronale, la strada era aperta verso la normalizzazione degli altri riti, quali quelli della Settimana Santa. Nessuno, in effetti, nelle piccole comunità contadine di questa provincia del profondo sud, sospettava che ci potesse essere qualche cosa da eccepire nei riguardi di tali riti: essi erano stati sempre incoraggiati ed alimentati da parte degli zelanti pastori. Rituali per lo più caratterizzati da un tono mesto e penitenziale – sacre rappresentazioni, camici bianchi e nudi piedi in processioni melanconiche, scandite da tristi marce funebri e da lugubri lamenti che accompagnano simulacri dalle sembianze drammatiche (Cristi dai corpi lacerati e Mater di nero vestite che li seguono fino al compimento del loro ineluttabile destino). Il transfert di questi riti dall’alto pathos drammatico è certo quanto di più efficace la commistione tra sacro e profano abbia
mai prodotto. Una catarsi degna della più antica tradizione delle tragedie greche, dove ogni madre e ogni figlio si riconosce, proiettandovi e rievocandovi il proprio piccolo dramma umano. Sermoni e canti quaresimali, del resto, fanno particolare leva su quei meccanismi di umana compassione e compartecipazione – il dramma del Figlio e della Mater diventa il dramma di tutti gli uomini afflitti e perseguitati e di tutte le madri che soffrono per essi. Una Passione umana-troppo umana, verrebbe da dire, in cui i terreni affanni lambiscono la dimensione del sacro fino a fondersi… Nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia si rilevano diverse analogie tra questi riti. In Puglia, Calabria e Sicilia queste drammatizzazioni sono particolarmente condite di elementi il cui intreccio rivela antichi influssi, soprattutto di origine spagnola (risalenti al XVII secolo), ma che a loro volta ritroviamo anche in ambiti non interessati dal dominio spagnolo come la Sardegna. Dietro il ricco apparato liturgico dei riti pasquali ritroviamo un vero e proprio caleidoscopio di tradizioni medievali (come le sacre rappresentazioni inscenate in varie località, o le diavolate di Prizzi, nel messinese); di tradizioni del rito ortodosso (specie in alcuni centri di origine albanese presenti in Sicilia); di tradizioni popolari secentesche, come il ricco repertorio di canti polivocali in latino volgarizzato – Popule meus, ‘A via di la Cruci, Lu venniri di mazzu, Ciangi, ciangi Maria sono tra i più diffusi – tratti dalla liturgia cattolica antecedente il Concilio Vaticano II o da vangeli apocrifi, che vengono eseguiti da gruppi di anziani cantori in vari comuni siciliani (Alcara Li Fusi, Caltanissetta, Capizzi, Cerami, Enna, Leonforte, Longi, Palagonia, Tusa, Santo Stefano di Camastra, etc.), così come in Sardegna o in Andalusia. Dietro l’apparato liturgico ritroviamo ancora tradizioni precristiane mutuate dal mondo ellenico (si vedano ad esempio i lavureddi di grano cresciuto al buio esposti nei “Sepolcri”, come diretta derivazione dai “Giardini di Adone” che nel culto pagano rappresentavano similmente il dio morto e resuscitato, o ancora la processione della “cerca” – incontro tra le statue di Cristo e la Madonna la domenica di Pasqua – che trova il suo corrispondente nelle manifestazioni religiose in cui la dea Afrodite andava alla ricerca dello figlio-sposo Adone). Elementi, questi ultimi, che tradiscono una volta di più la diretta ascendenza di tali tradizioni, cosiddette cristiane, da culti di ben altra natura, a riconferma di quella sovrapposizione che il cristianesimo operò fin dalle origini sostituendo la Pasqua ai riti pagani celebranti la rinascita primaverile, come degnamente esemplati dal ricorso ad elementi vegetali dalla forte pregnanza simbolica: tronchi di alberi che vengono innalzati (a Terrasini); fave novelle, fronde di alloro, arancio o mirto portati qua e là in processione; torce o falò (Alimena, Caltanissetta, Ferla, Leonforte, Sortino). Riti propiziatori di rigenerazione e di fertilità che la Pasqua reinterpreta in chiave cristiana come rappresentazione simbolica del Figlio di Dio che sconfiggendo la morte muore e rinasce, per riscattare e assicurare la rinascita individuale d’ogni uomo che abbia accolto il messaggio messianico. Antichi retaggi che mutatis mutandis sopravvivono e che, spesso dimentichi di sé e delle proprie origini, si offrono come facile materia a operazioni di reinterpretazione teologico-dottrinale, nonché ad anacronistiche rivendicazioni da parte di una Chiesa che tutto fagocita e convoglia nel proprio patrimonio.
Certe tradizioni sembrano come governate dall’istinto conservatore dei pool genici (Richard Dawkins userebbe l’espressione memi): per loro non è importante tanto il referente (che si chiami Adone o Cristo, Cibele o Maria), quanto la possibilità di perpetuarsi a dispetto dei tempi e per tramite di vari adeguamenti dettati dall’habitat in cui si sviluppano o attecchiscono (condizioni socio-politico-religiose). Simulacri (ex Idoli) che nel lungo processo storico mutano nomi o fattezze; statue che spesso travalicano i limiti stessi della materia di cui sono forgiate per diventare presenza concreta, quasi carnale, del nume (vedi ad es. il San Calogero ad Agrigento, accarezzato, abbracciato, baciato come se si trattasse di una persona in carne ed ossa; certe invocazioni, vezzeggiativi e apprezzamenti pronunciati con lo sguardo estasiato rivolto verso i muti e affascinanti sembianti che troneggiano nei loro splendenti fercoli, come nel caso di Sant’Agata a Catania; la rappresentazione della “deposizione dalla croce” che ha luogo in molte chiese il Venerdì Santo, avente ad oggetto un Cristo snodabile che, riposto su un catafalco, viene accarezzato, baciato, adorato dai fedeli col beneplacito degli astanti sacerdoti; fino a giungere alle speciali statue di Madonne pellegrine, come quella di Fatima o di Loreto, accolte ovunque come vere e proprie visite di Maria, la cui presenza, evidentemente, non viene sufficientemente garantita dalle tante raffigurazioni che ognuna delle comunità visitate già possiede all’interno delle proprie chiese). E c’è poi anche una dimensione del gioco che caratterizza fortemente molte di queste manifestazioni, in primis le processioni, in cui certi approcci da parte di gruppi, corporazioni o comitati per lo più maschili, sembrano trovare nei sacri simulacri un suffragato delle care vecchie bambole con le quali, magari, da piccoli avrebbero voluto giocare e per una sorta di pudore virile non hanno mai osato farlo (a Sambuca di Sicilia la statua della Madonna viene vestita di un manto e agghindata come fosse una sposa nel giorno del suo matrimonio, poi condotta l’intera notte per le vie del paese tra canti e solenni bevute; qualcosa di simile avviene a Mineo il giorno dell’Assunta, con una sorta di manichino raffigurante la dormizione
di Maria). Gesti rituali che tuttavia sarebbe troppo semplicistico ridurre a mere licenze concesse dall’autorità ecclesiastica a quelle frange di cattolici cosiddette immature nella fede. All’interno del corpo ecclesiastico, i cosiddetti maturi nella fede – osservatori della più rigida liturgia ufficiale – si saranno magari affrancati dalle statue, ma forse non del tutto da altre forme idolatriche più moderne e raffinate: da un punto di vista concettuale, potrebbe ritenersi idolatrica anche una morbosa quanto acritica venerazione di un leader (ad es. un papa da vivo come da morto); un libro (sia pure ritenuto parola divinamente ispirata, come la bibbia); un’ostia (perché ritenuta corpo concreto di Cristo); o ancora certe celebrazioni liturgiche che in quanto a sfarzo o accorgimenti sceno-coreografici nulla hanno da invidiare a quelle meno colte del popolo profano, tanto da ridursi il più delle volte a riti che celebrano se stessi…la lista sarebbe troppo lunga.
I riti della Settimana Santa, dicevamo, passavano nonostante le loro coloriture come legittime nel canonico contesto liturgico. La Sacrosanctum Concilium del 1963, così come il documento della Conferenza Episcopale Siciliana del 1968, sembrarono in molti casi lettera morta. Nelle ricorrenze religiose di molte città, del resto, entravano in gioco molti fattori: la Chiesa non era l’esclusivo attore; insieme ad essa giocavano un ruolo co-protagonista le civiche Amministrazioni, le varie corporazioni, comitati e confraternite laiche (queste ultime non sempre in piena sintonia con la dottrina della Chiesa entro cui operavano) e, naturalmente, entravano in scena anche certi poteri massonici e/o mafiosi (davanti alle cui residenze i sacri simulacri rendevano omaggio). Tali feste, nella maggior parte dei casi, perdevano la loro esclusiva pertinenza di carattere religioso per assurgere a veri e propri eventi cittadini, in cui gli aspetti meramente folklorici (spettacoli musicali e pirotecnici) andavano progressivamente acquistando una sempre maggiore enfasi; offrivano a taluni l’opportunità di riaffermare il proprio prestigio o ruolo di comando, ad altri l’occasione per inscenare competizioni esibizionistiche fra diverse fazioni (come ancora accade a Militello Val Catania, tra i rispettivi comitati delle due feste patronali e in tanti altri centri siciliani). Questo stato di cose si è svolto (e in molti casi ancora oggi si svolge) in un clima di notevole connivenza e accondiscendenza tra i vari poteri – civili-militari-religiosi. Tranne rare eccezioni, vescovi e sacerdoti si son ben guardati dall’infrangere certi equilibri…concedendo al popolo i suoi svaghi. Una delle rare eccezioni è proprio il già noto Vincenzo Manzella, e qui facciamo un’altra incursione a Palagonia.
Nel 1994 la manzelliana “spada di Damocle” si abbatte sui piissimi riti della Settimana Santa che qui, come altrove, sono particolarmente cari alla pietà popolare. La città nutre una secolare devozione per il Cristo alla Colonna, le cui celebrazioni consistevano in due distinte processioni (la sera del Giovedì Santo e la mattina del Venerdì Santo), anche qui scandite dallo sparo cadenzato di mortaretti, e caratterizzate dal suono di tristi marce, dai canti popolari del Popule meus e dalla partecipazione di numerosi confrati indossanti il tipico camice bianco; anche qui, come altrove, le donne assumevano un tono di mestizia, seguendo il percorso delle processioni a piedi scalzi (magari, non di rado, indossando sopra delle vistose pellicce, con tanto di gioielli e capelli accuratamente acconciati). Erano i due giorni in cui tutta la cittadinanza si fermava, in cui non vi era distinzione alcuna tra i vari ceti più o meno agiati: tutti si recavano a rendere omaggio al penitente Cristo alla Colonna. Ed era anche l’occasione di un rinnovato appello collettivo in cui ci si aggiornava sui nuovi vivi e i nuovi morti, sui matrimoni ormai estinti o quelli in vista etc. Le celebrazioni si chiudevano la sera del venerdì con la processione del Cristo morto e dell’Addolorata. Fatto curioso di Palagonia era la mancanza, al livello popolare, della celebrazione pasquale: infatti, fino agli inizi degli anni ’60 del Novecento, la città faceva un netto balzo dal Cristo morto all’exploit di gioia della festa patronale, che entrava nel vivo proprio il Lunedì dell’Angelo, e nonostante i ripetuti tentativi di istituzione d’una festa avente come protagonisti le statue di Cristo, Pietro e la Madonna, l’evento non era mai realmente attecchito. Tutto è andato così per molto tempo, scontato nella sua immutabilità. Tutto fino a quel 1994, quando Manzella ordina l’abolizione della processione del Giovedì Santo in quanto momento riservato dalla Liturgia della Chiesa al memoriale della Coena Domini, e dispone di unificare le due processioni in un’unica da tenersi nella sola mattina del venerdì. Per ben due anni ci fu un acceso confronto tra l’autorità ecclesiastica da una parte, e il popolo dall’altra (cui facevano capo confraternite e autorità civili). Il primo clamoroso episodio di protesta fu il prelevamento da parte dei fedeli del Cristo alla Colonna, portato in processione senza alcuna autorizzazione (i giornali locali titolarono l’indomani: “Palagonia – Il Cristo rapito”). L’anno seguente, impediti ad impossessarsi del
simulacro, per via di un massiccio dispiegamento di Forze dell’Ordine davanti a tutte le chiese, la sera del Giovedì Santo gli intrepidi fedeli diedero luogo ad un’insolita processione senza il Cristo, ma condita di tutti i consueti elementi. Il peggio doveva però ancora accadere… Quello stesso anno 1995, le due giornate di sacre celebrazioni si conclusero con un clamoroso scontro clerico-popolare: la sera del Venerdì Santo, nel vivo della processione del Cristo morto e dell’Addolorata, come sempre accompagnata dai confrati incappucciati Mammalucchi (o Babbalucchi, dall’arabo Mamluk = schiavo, nel XIII secolo soldati turchi asserviti al sultano d’Egitto), nella centralissima piazza Garibaldi, mentre il sacerdote Mariano Randello stava tenendo il tradizionale sermone affacciato da un balcone, dalla sottostante folla si levarono insulti e grida di protesta contro lui e gli altri parroci presenti in processione. La situazione precipitò nel giro di pochi minuti: i sacerdoti vennero accerchiati, spintonati e aggrediti a colpi di croce, inseguiti per tutta la centrale via, fino a quando riuscirono a ripararsi all’interno di un club calcistico, il tutto fra l’incalzare di insulti e fischi…. In un’atmosfera surreale la processione proseguì spedita verso il tradizionale tragitto fino alla Chiesa Madre, tra uno scrosciare di applausi e di acclamazioni, e senza più la presenza di quei sacerdoti ritenuti ostili e nemici delle proprie tradizioni. La reazione del vescovo non si fece attendere, con quella che si doveva configurare come una punizione esemplare: dispose la chiusura istantanea di tutte le chiese cittadine per circa un anno, durante il quale furono garantiti gli essenziali servizi liturgici in una sola parrocchia;
per quell’anno vennero sospese prime comunioni e cresime, ed inoltre, fu avviato un procedimento legale nei confronti di alcuni esponenti delle confraternite accusati dell’aggressione, che si trascinò per diversi anni. Nel giro di poco tempo si sciolsero anche le stesse confraternite, che nel frattempo vennero convertite in associazioni autonome aventi come competenza la cura delle rispettive cappelle cimiteriali. Intanto, a fronte dello scarso incremento di fedeli tra i banchi di chiesa, quei due sacri giorni, in cui tutta la città si fermava, persero man mano quel loro potere catalizzante attorno alla celebrazione dei riti, e nessuno riteneva più di sospendere le proprie quotidiane attività. Le ripercussioni sulla città furono tante, e non solo di carattere religioso, ma anche di immagine. Lo sconvolgimento informò di sé ogni aspetto socio-culturale cittadino. Luigi Capuana avrebbe osservato: “(…) l’opera però ha distrutto e cancellato e non ha ancora creato niente da sostituire; che ha spazzato via ogni cosa: il cattivo e il buono; la superstizione… l’eccesso e l’abuso della forza e la forza stessa insieme; la tradizione e la particolarità originale; il costume e il sentimento.”. In tutto questo, non mancarono da parte di certi cattolici osservanti, atteggiamenti denigratori e derisori nei confronti dei devoti incolti, rasentando talvolta addirittura l’iconoclastia. In tutto questo, anche l’Amedit (unica associazione allora operante nella città) veniva da certi parroci guardata con sospetto e ritenuta una pericolosa minaccia, per via delle iniziative socio-culturali che andava proponendo, aventi ad oggetto tra l’altro, proprio la salvaguardia di quelle bistrattate tradizioni nel loro indubitabile valore antropologico-culturale. Episodi simili, anche se meno eclatanti, si ebbero anche a Ramacca e Militello V. C., e in ultimo, diversi anni dopo, anche a Caltagirone, dove lo stesso vescovo fu oggetto di insulti da parte di alcuni fedeli, sempre nel corso della processione del Cristo morto. Alla fine, comunque, l’onore delle armi spettò al Manzella, riuscendo a conformare tutto alle sue insindacabili disposizioni. E non solo sul fronte delle tradizioni popolari: le sue attenzioni si rivolsero qualche tempo dopo anche nei confronti dei movimenti operanti in seno alla Chiesa (Rinnovamento Nello Spirito e gruppi Neocatecuminali, questi ultimi addirittura sciolti in tutta la diocesi, perché accusati di agire troppo autonomamente).
Ma…a volte, ritornano… il titolo di questo articolo non è un caso. Anno 2010: cambia il vescovo, cambia tutto. All’autoritarismo del primo, fa da contraltare la mitezza e la predisposizione al dialogo del nuovo vescovo Calogero Peri. Il clima, nella diocesi calatina, si fa finalmente più disteso. Il nuovo pastore non sembra tanto ossessionato dall’imbracciare guerre sante contro tutto ciò che contrasta il rigore della Liturgia. Palagonia accoglie con profondo sentimento di gratitudine la presenza di un vescovo alla propria festa patronale (S. Febronia 2010). Nel 2011 il dialogo produce i suoi frutti anche sui riti della Settimana Santa: dopo diciassette anni viene ripristinata la processione serale del Cristo alla Colonna (anche se di mercoledì) e, incoraggiati da un tale clima, gli stessi gruppi parrocchiali con a capo i rispettivi sacerdoti, riescono ad instaurare un dialogo con le confraternite; vengono riscoperti e valorizzati gli elementi più sani e genuini dell’apparato tradizionale (soprattutto gli antichi canti della pietà popolare), e il tutto dà luogo ad un esito inatteso e, a detta di tutti, di meravigliosa simbiosi. Segno che il dialogo produce molti più frutti dell’autorità e dell’abuso di potere. Quelle tradizioni, che solo diciassette anni prima venivano bollate come pagane e idolatriche, oggi sono riconsacrate e rilegittimate. In realtà, non erano mai perite…continuavano a ribollire nelle subcoscienze, e rappresentavano ancora una questione irrisolta.
In tale scenario, si colloca emblematicamente il volume del presbitero calatino Fabio Randello “L’eccesso dell’amore”, che egli dedica proprio quest’anno ai riti della Settimana Santa che si svolgono nella sua Licodia Eubea. Nella presentazione al volume, il vescovo Peri osserva: “La religiosità popolare, a dispetto di quanti l’osannano o di quanti la denigrano, continua a veicolare, per molti, di fatto, il loro incontro con Dio. Si può discutere, anzi se ne deve discutere, del perché lo fa, del come lo fa, e fin dove lo fa o lo può fare. Ma, in ogni caso, senza dimenticare che lo fa. (…) Resta comunque da spiegare la sua forza di coinvolgimento, la sua capacità di trasmettere contenuti, insegnamenti, valori, memorie, attraverso forme che magari possiamo giudicare inadatte o pagane, deviate e devianti, umane e non evangeliche. A volte a noi l’intero ciclo dell’anno liturgico, con tutte le sue celebrazioni, ripetute ogni anno, non riesce a far fare profonda esperienza di Dio o a dare identità cristiana ai nostri fedeli, e poi di contro basta una solo evento di
pietà popolare per segnare nella mente, nel corpo e nel cuore ogni persona e tutta la comunità. Forse sarà l’approccio totalizzante, il mettere in sinergia la mente e il cuore, la ragione e le emozioni, il passato e il presente, le nuove generazioni con quelle passate, quello che si può raccontare con quello che resta misterioso, quello che gli occhi riescono a vedere con quello che solo il cuore può sentire. Sarà in questo il suo segreto e la sua efficacia, sarà magari in altro, ma non può sfuggire alla nostra considerazione che sicuramente riesce a toccare le corde più sensibili e più universali dell’animo umano”.
Che dire? Entrambi i vescovi hanno agito con discernimento e assistiti dall’ispirazione dello Spirito Santo…e per ciò stesso…dal fallo esente. La rivalutazione di certi riti nell’area calatina (e a Palagonia in particolare) si colloca in una più generale controtendenza rispetto al passato e rispetto ad altre realtà più dinamiche: proprio contesti come quello palagonese, attualmente interessato da uno dei suoi momenti più bui, in cui l’offerta culturale è pressoché nulla, favoriscono un ritorno agli oratori parrocchiali e ad un nostalgico riflusso di certe consuetudini. Del resto, è sintomatico come in un siffatto ambiente un manifesto funebre o un avviso sacro suscitino più interesse di un invito alla presentazione di un libro o ad una mostra… In realtà come queste, ove manchino alternative che si offrano come occasioni di incontro e di aggregazione (o l’interesse verso di esse), il dilagare del ruolo accentratore delle parrocchie trova il suo terreno più fertile: queste offrono spazi (che alla Chiesa non mancano di certo), cineforum, raduni, gite, fino alle nuove tendenze “alla moda” come i trendy Happy hour con tanto di drink e discoteche.
Giuseppe Maggiore
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