NEGRESSE OBLIGE Influssi dell’arte africana sulle avanguardie del primo Novecento

“La semplicità non è uno scopo per l’arte, si giunge alla semplicità malgrado se stessi, avvicinandosi al senso reale delle cose.” Costantin Brancusi

L’occasione della grande mostra di Genova ci offre l’opportunità di indagare le ragioni che portarono molti artisti europei a inglobare, nella struttura stessa delle loro opere, l’anima nera e profonda dell’Africa. Dal 1905 fino ai primi anni ’30 viene a compiersi un inatteso e bizzarro matrimonio tra le linee imborghesite dell’Occidente e quelle ancora sudate e febbricitanti del continente nero; quest’ultimo, alla stregua di un novello Atlantide appena riemerso, catalizza e obnubila certe tendenze della ricerca e del gusto nell’alveo delle arti figurative. All’appello rispondono tutti, o quasi. I Fauves (Vlaminck, Derain), Matisse, Picasso, Braque, Gris, Brancusi, Moore, Lipchitz, Marc, Macke, Modigliani, Léger (l’elenco è lungo e non è questa la sede per entrare nel dettaglio). Nel celebre Les demoiselles d’Avignon (1907) Picasso stilizza i tre volti della parte destra del dipinto fino a connotarli a guisa di maschere; simbolicamente, a partire da questa data il processo della nuova strutturazione negromorfica può considerarsi innescato. Agli esotismi, irresistibili proprio perché ancora solo parzialmente esplorati, aveva già ceduto Gaugain, che come è noto lasciò la contemporaneità del suolo francese per catapultarsi tra i popoli primigenei e incorrotti di Tahiti. Il suo amico Van Gogh era invece talmente affascinato dall’arte giapponese da tappezzare la sua stanza di cartoline e immagini nipponiche. Tutta l’arte delle avanguardie del primo Novecento ha lavorato ossessivamente nella ridefinizione di un linguaggio compositivo, e mai tante esperienze così diverse si verificarono in un raggio temporale così ristretto. Nei linguaggi d’oltrefrontiera molti artisti credettero di individuare una via forse più semplice e immediata, capace di risolvere l’annoso problema della struttura formale. Le linee minimali, severe e sintetiche della cosiddetta arte negra vennero salutate, alla quasi unanimità, come l’escamotage perfetto, a un tempo antioccidentale e antiaccademico. Al naturalismo iperrealistico viene a sostituirsi il rapporto essenziale di tre o quattro linee, o forse dovremmo parlare di “segni”. Pochi tratti ma decisi, ben rimarcati; laddove il naturalismo lavorava sulla dissimulazione delle linee di contorno, questa nuova sintesi si muoveva in direzione decisamente opposta, con pennellate perimetrali corpose e insistite, distanti anni luce dalle leziosità della maniera tradizionale. Il volto, fulcro espressivo della figurazione, si appropria di una nuova fisiognomica: è la maschera a mettere a nudo la verità del volto. Gli influssi dell’arte negra penetrarono in Europa per vie diverse, sia sottoforma di artigianato coevo che attraverso gli antichi esemplari esposti nei nuovi musei etnologici. Ogni artista veicolò queste stilizzazioni nelle maglie del proprio percorso di ricerca, esaltandone di volta in volta gli aspetti più diversi. Nella sintesi africana convivono infatti più valenze intrinseche. Come non scorgere nella rigidità totemica un che di ingenuamente infantile, di facile, di tranquillizzante. Stratificati, uno sull’altro ritroviamo anche millenni di storia, di popolazioni arcaiche e remote nostre progenitrici. Dalla figura negra stilizzata non è dissociabile l’emblema arcaico del feticcio rituale. L’icona occidentale, destrutturata attraverso il filtro del modello negromorfo, finisce per acquisire uno spirito primordiale. Più che come una novità l’influsso dell’arte negra venne inteso dalla maggior parte degli artisti come un ritorno alle origini, una regressione in chiave spirituale e panteistica. Non si trattò quindi di una schematizzazione meramente epidermica e superficiale, ma di una vera e propria ridefinizione endostrutturale. Nessun compiaciuto anacronismo quindi. Agli occhi di un Picasso, di un Matisse e di un Modigliani quelle figure apparvero anzi futuribili, più contemporanee di quelle che si stavano cristallizzando nella pittura coeva. Le avanguardie più accese e rivoluzionarie furono quelle che attinsero al cosiddetto “primitivismo”. Si trattò di un passaggio obbligato, di una traiettoria che in un modo o nell’altro doveva necessariamente compiersi. Nei primi anni del Novecento, a un passo dal primo conflitto bellico mondiale, la figura umana già barcollava alla ricerca di una nuova identità moderna; inquietudini, queste, che per traslato ritroviamo nella figura pittorica, e più in generale in tutte le sperimentazioni operate nei circuiti della figurazione. Le influenze e le contaminazioni dell’arte africana si verificano attraverso due distinte modalità generali: da un punto di vista strettamente formale fornendo soluzioni plastiche inedite, di scomposizione dei piani e di sintesi espressiva; da un punto di vista più squisitamente contenutistico, esaltando le funzioni simboliche e magico-rituali dell’opera d’arte, che rendono le stilizzazioni arcaicizzanti veicolo dell’espressione interiore. Il ritmo serrato delle ieraticità plastiche si rivela con forza e irruenza maggiori soprattutto nelle sculture; qui il richiamo all’idolo litico o ligneo raggiunge la sua apoteosi (pensiamo alle Schiene di Matisse o alle Teste di Modigliani).

Nella visualizzazione scultorea la sintesi primitivistica si dichiara nella sua condizione archetipa; la materia grezza, faticosamente abbozzata, stigmatizza una protoarte della notte dei tempi, giusto un passo più in avanti del menhir monolitico. Tanto nella scultura quanto nella pittura non c’è imitazione o scimmiottamento della figura umana, nessuna competizione, nessun processo di mimesis, nessuna raffinatezza. La sintesi suggerita dall’arte negra consente altresì l’individuazione più schietta e sincera della natura umana, rivelata più nella sua spiritualità sottocutanea che nella sua parvenza carnale. Non c’è contraddizione tra l’avanguardia proiettata al futuro e la ricerca di un’identità che rimesta a piene mani nel passato. Forse la modernità portentosa di queste opere risiede proprio nell’apparente dicotomia tra i due estremi. Dopo la seconda guerra mondiale, le arti figurative e non-figurative si faranno depositarie di questa lezione, continueranno a portarsela dentro, nello scheletro strutturale, nell’equilibrio e nella proporzione, a sostegno di un desiderio di sintesi sempre perseguito e forse mai veramente raggiunto una volta per tutte.

Massimiliano Sardina

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 6 – Marzo 2011.

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