
Most people keep their brains between their legs.
Molta gente ha il cervello in mezzo alle gambe.
(Morrissey, Such a little thing…, 1991)
Proprio in questi giorni, per celebrare i vent’anni di carriera da solista dell’ex Smiths, la Major Minor riedita, in edizione limitata, il primo singolo estratto dall’album d’esordio Viva Hate (1988): Everyday is like sunday. Un’occasione, quanto mai preziosa, non solo per rispolverare un classico (come si dice in questi casi) tributandogli i dovuti onori, ma anche per accendere e stimolare l’interesse delle nuove generazioni. Un brano in perfetto stile Morrissey, pregno di quella seducente malinconia che ritroviamo in ogni pagina del suo repertorio, tanto nelle ballate più struggenti quanto nelle composizioni più schiettamente rock. In vent’anni, questo va detto, l’ispirazione del “Moz” (vezzeggiativo caro ai fans del Regno Unito) non è mai venuta meno, con la sola eccezione della lunga pausa tra gli album Maladjusted e You are the quarry (1997-2004). Autore infaticabile, generoso, impulsivo, mosca bianca nel panorama cantautorale contemporaneo, difficilmente assimilabile ad altre firme del mondo musicale, forse più affine a certe personalità della letteratura tra ‘800 e primo ‘900. Se gli arrangiamenti rivendicano orgogliosamente un rock primigenio, essenziale, spurio di barocchismi, i testi invece attingono da Oscar Wilde e da Truman Capote fino al nostro Pasolini; alla forte connotazione maschile (post-James Dean) del tappeto musicale viene a contrapporsi la virilità capovolta delle stesure testuali, veri e propri chant d’amour neoromantici velati da un mal di vivere onnipresente e dalla rievocazione nostalgica di un passato irrimediabilmente perduto. Queste due componenti, stridenti per loro natura ma rese complementari, le ritroviamo in brani come: There is a light that never goes out, Dear God please help me, Suedehead, You have killed me, Bengali in Platforms, Asian Rut, Angel down we go together, My dearest love…; l’intonazione vocale, sempre intima e partecipe, a tratti anche quasi teatrale e retrò, non fa che rimarcare la compiaciuta melanconia saturnina che investe e caratterizza queste atmosfere. La voce del Moz è calda e commossa, in perfetta aderenza con le trame del testo, pronta a piegarsi nelle sfumature più sofferte ma anche ad arrampicarsi sulle tonalità più irriverenti e provocatorie; ed è proprio in virtù di questo versatile e singolare impiego della voce che viene a stabilirsi quel “ponte”, inconfondibile (e, mi si conceda l’espressione, “molto-Morrissey”), tra la musica e il testo. Un “ponte” che, per semplificare, potremmo sinteticamente definire “interpretazione”, ma sarebbe riduttivo. Le tematiche, i soggetti trattati di volta in volta in ogni singolo brano, passano necessariamente attraverso il filtro interpretativo di questo ponte. Ai pezzi che abbiamo citato pocanzi potremmo aggiungere: Papa Jack, Trouble loves me, Our Frank, November spawned a monster, …ma ci fermiamo, perché l’elenco è molto lungo. Amore e Morte, Eros omoaffettivo da College oxfordiano e Thanatos della periferia di Manchester, ma in prima linea c’è anche un acceso e agguerrito impegno civile (si veda in tal proposito il brano d’apertura dell’album You are the quarry: America is not the world), nonché una controversa e problematica spiritualità occidentale.
L’amore esigente, vissuto e disincantato convive con quello adolescenziale, idealizzato e innocente, in un eterno ritorno tra l’idillio e il rimpianto. You had to sneak into my room just to read my diary / was it just to see all the things you knew Id written about you?/ and so many illustrations(…) Hai dovuto intrufolarti nella mia stanza, solo per leggere il mio diario, l’hai fatto solo per vedere tutte le cose che sapevi che avevo scritto su di te?Oh, tutte quelle immagini… Scandagliando i testi, e più in generale la sua biografia, quella che emerge non è tanto la figura di un provocatore quanto quella, più problematica se vogliamo da circoscrivere, di un insofferente. Antiamericano, antimilitarista, vegetariano e animalista militante, schierato ma al tempo stesso difficilmente collocabile e etichettabile, spesso contraddittorio, umorale, talvolta facilmente fraintendibile (…come quella volta che venne accusato di razzismo per aver sventolato l’Union Jack sul palcoscenico, polemica xenofoba riaccesa strumentalmente nel 2007 dalla rivista musicale NME in merito ad alcune dichiarazioni rilasciate dallo stesso sul tema dell’immigrazione in Inghilterra), altre volutamente ambiguo, più spesso filo-snob e ipercritico su diversi fronti; sulla complessa personalità di Morrissey circola una nutrita saggistica (per chi volesse approfondire consigliamo vivamente l’esaustiva psico-biografia di Mark Simpson “Saint-Morrissey”, disponibile anche in traduzione italiana).
Dalla celebre Reel around the fountain (del periodo The Smiths) fino al più recente Years of Refusal la struttura portante dei brani è pressoché identica; e, d’altra parte, se la formula è vincente perché mai cambiarla o infierirvi? Morrissey lavora su uno schema ben collaudato senza perdersi in sperimentazioni accessorie, fedele e coerente a un tracciato immediatamente riconoscibile. Gli arrangiamenti rock (o pop-rock, o glam-rock, se si preferisce) si intrecciano a una “tradizione” secondo scelte reiterate di severa sobrietà, con pochissime concessioni all’elettronica o all’orchestra, guadagnando a volte involontariamente certi sapori vintage (il riferimento va alla recente All you need is me). Quella di Morrissey non è certo una musica d’evasione o di sottofondo. Ascoltare Morrissey, amare Morrissey comportano un certo grado di coinvolgimento e di adesione a priori, e per chi vi si accosta per la prima volta non è facile entrare subito in sintonia con una poetica così complessa e particolare. Forse è anche per questo che Morrissey o lo si ama o lo si detesta.
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