Cosa intendiamo per Cultura

Giunti al terzo numero serve fare un pò di chiarezza su un termine di cui spesso oggi si abusa e che costituisce uno degli elementi portanti della rivista: “cultura”
Con il singolare cultura, si vuole designare un insieme di conoscenze, un sapere legittimo, riconosciuto e condiviso, mentre con il plurale culture si tende a indicare le abitudini e le caratteristiche che si attribuiscono a gruppi di individui nella loro concretezza. Se “cultura” si applica a un sistema di rappresentazioni, che ci è più familiare, “culture” rimanda a qualcosa che è altro da noi, a una pluralità non priva di diffidenza, estraneità, e perché no? Conflitto.
Nell’ambito delle discipline etnoantropologiche, si definisce correntemente la cultura come un complesso di idee, simboli, azioni e disposizioni storicamente tramandati, acquisiti, selezionati e largamente condivisi da un certo numero di individui mediante i quali questi ultimi si accostano al mondo in senso pratico e intellettuale (Ugo Fabietti 2004).
Per comprendere come si sia arrivati ad una concezione che si sforza di comporre l’antinomìa “cultura/culture” è necessario tornare alla tradizione storico-filosofica che ne ha delimitato il campo semantico in un costante dibattito.
Etimologicamente, il vocabolo italiano cultura rinvia al verbo latino colere (coltivare), che si associa all’immagine della coltivazione della terra, cioè ad un processo di trasformazione attraverso il quale l’elemento umano agisce sull’ambiente circostante. Per traslato, la cultura è l’effetto di un lungo e faticoso processo di acquisizione di abilità, di conoscenze, di norme, al termine del quale l’essere umano si affranca dal contesto naturale per venire riconosciuto quale membro di una data società. È Lévi-Strauss a sottolineare come l’attività materiale della coltivazione, il labor, e l’esercizio costante delle proprie facoltà (un lavoro inteso esclusivamente sul piano simbolico) si iscrivessero nel medesimo immaginario: la cultura instaura un ordine antropocentrico.
Sino all’età delle grandi scoperte geografiche, la cultura è caratterizzata da una pretesa omogeneità: il contatto con gli altri popoli con una diversa concezione della vita, del lavoro, della società, con una diversa sensibilità religiosa determina un trauma nell’Europa dei dotti, dove la codificazione del sapere era tradizionalmente affidata a quegli eruditi che padroneggiavano i testi antichi e i libri sacri. Costruita sulla contrapposizione con un altro da noi, sulla base della fede o della razza, l’idea di cultura definisce un “noi”, tanto più forte quanto l’altro è immediatamente riconoscibile. L’età moderna vive il trauma e la sorpresa del moltiplicarsi della differenza e della sua varietà.
Per quanto oggetto di un iniziale misconoscimento da parte di coloro che a qualsiasi titolo vi entrarono in contatto, le manifestazioni culturali “altre” si imponevano all’attenzione degli europei quali risposte efficaci alla specificità dell’ambiente circostante. A malincuore si constatava che ad altre latitudini gli uomini, quegli uomini di cui si metteva in dubbio l’umanità, avevano prodotto forme di organizzazione, materiale e simbolica, che non si potevano liquidare sulla base della loro inferiorità. Quando le narrazioni di viaggiatori e mercanti fecero conoscere al pubblico europeo pratiche culturali del tutto differenti, iniziò ad incrinarsi l’immagine monolitica della cultura, imponendo che si riconoscessero gli altri come interlocutori. Bizzarre, selvagge o primitive le esistenze degli altri costituivano, tuttavia, un termine di paragone, spesso scomodo e inaccettabile, pertanto accostato e ricondotto alle diversità più familiari e rassicuranti di cui la storia forniva esempi: sconfitti e dominati i popoli che si andavano conoscendo, vennero relegati in una sorta di preistoria dell’umanità.
Un mutato approccio a questa diversità è possibile solo nel momento in cui il lavoro degli illuministi pone in evidenza i limiti e le contraddizioni del sistema di valori fino ad allora accettato. E’ quindi da allora che l’insieme di comportamenti, conoscenze e norme sedimentate nella parola cultura vengono ad essere interpretate come l’espressione degli interessi, del gusto e delle scelte di un’élite, una possibilità fra le altre. In letteratura, l’ironia corrosiva di cui già le “Lettere” di Montesquieu forniscono un eccellente esempio rivive nel “Discorso sull’Origine della Ineguaglianza”, in cui Rousseau giunge ad attribuire al termine primitivo una connotazione positiva: nel mito del buon selvaggio rivive la speranza di un nuovo inizio, di un ritorno alla giovinezza incontaminata dell’umanità. In quegli scritti che si considereranno poi alla stregua di precorrimenti dell’indagine antropologica l’altro dà voce ad un avvertimento per “noi”, costituisce il punto di partenza per una riforma radicale della società. E, tuttavia, dell’altro non si ha che una nozione parziale e sovente confusa. L’attenzione (fascinazione) per quelle culture lontane (esotiche), di cui si intuisce un valore, costantemente esposto al dubbio, matura nel tentativo contraddittorio e paradossale di appropriarci dell’altro, di ricondurlo al noi, di “addomesticare” la differenza di cui è portatore.
Tendenza all’assimilazione che si fa’ più forte nel corso del diciannovesimo secolo quando gli interessi economici e politici delle potenze coloniali impongono una ottimizzazione del rapporto con le popolazioni poste sotto la loro ègida, trova il suo compimento nel concetto di “missione civilizzatrice”. L’affermazione di un particolare dovere dei dominatori nei confronti dei dominati implica che prevalga la superiorità della cultura egemone sulle altre, che le sono gerarchicamente dipendenti. Il termine “civiltà” viene quindi a designare l’obiettivo cui tendere, il progresso in cui le popolazioni altre sono forzatamente inserite e, nello stesso tempo, il termine civiltà si identifica con la storia, le istituzioni, le conoscenze di cui gli europei si ritengono depositari.

Mauro Carosio

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