I luoghi del Teatro e quelli dell’Opera d’Arte sono luoghi, per necessità, virtuali. In essi, infatti, viene a consumarsi la rappresentazione, la messa in opera (o, se si preferisce, la messa in scena).
L’Arte, ovunque venga deputata a prodursi, è sempre fuori luogo: necessariamente deve allestirsi in uno spazio fisico per proiettarsi in uno meta-fisico. Dalla “quarta parete” l’osservatore assiste o interagisce, anch’egli indispensabile all’economia dell’evento, come il lacerto di carne che chiude e completa il ventre aperto dove si perpetra l’azione. Dalla più tradizionale metonimia al più asettico minimalismo tautologico l’Arte è sempre Teatro poiché è sempre Rappresentazione.
L’Arte è Rappresentazione anche quando dichiara impunemente di non rappresentare altro che se stessa. Nelle opere di Fornai Tevini ritroviamo condensate, compartecipi queste due grandi forze: il Teatro (con le sue impalcature, le sue protesi, le sue quinte) e la Pittura (che attraverso la pratica dell’assemblaggio quasi diviene scultura o micro-installazione); due medium espressivi stretti in un sodalizio creativo che però li lascia interdipendenti, quasi autonomi pezzo per pezzo.
Non a caso, sotto i titoli delle opere vediamo riportata anche una terza misurazione, quella relativa alla profondità: una dimensione che però, come avviene per il Teatro, non tarda a proiettarsi nella “quarta”, oltre il tridimensionale. Questa metafisicità, individuata con linee e materiali elementari, ci rimanda agli interni di De Chirico (si guardi “La Stanza di Funés” o “La Camera delle Statue”).
Le piccole figure giustapposte, ora circensi ora carnevalesche, stazionano in una sorta di equilibrio danzante, sospese tra mitologia e favolistica. Le opere di Fornai Tevini vengono dunque a compiersi per addizioni: sono piccoli teatri portatili, ma anche scatole magiche, presepi d’infanzia, edifici metafisici implosi senza rivestimenti perimetrali.
Alla sfera dell’infanzia vanno ricondotti anche i colori, e nel complesso la parte pittorica, che stendono sulle superfici una patina evocativa e nostalgica. In opere come “Teatrino romano” ci sembra di scorgere una singolare rivisitazione degli antichi piccoli polittici devozionali per il culto privato, in uso nel XIV e XV secolo.
Le dimensioni contenute di ogni elaborato smussano l’eloquenza dell’impianto teatrale e conferiscono all’insieme un’aura di delicata intimità.
Massimiliano Sardina